Voto di povertà e diaconato

L'ordinazione diaconale del monaco frà Federico Sacchet

“Gesù è il Figlio di Dio fatto uomo. Egli ci rivela Dio. Ma che volto prende Dio in Gesù? Il volto dell’uomo. Ebbene questo uomo che è il Figlio di Dio, si fa vicino a chi soffre: non c’è pagina del Vangelo in cui Gesù non sia vicino ad un ammalato, ad una persona che soffre, a chi ha il cuore desolato, proprio per far sentire la vicinanza a Dio. Dio, in Gesù, si rivela come colui che ama, che è spinto dal suo cuore a farsi vicino cioè «prossimo» dei bisognosi, di coloro che soffrono, dei peccatori. Vicino anche alla sofferenza interiore, non solo al bisogno di cose, di salute, di vita. Gesù, in tutta la sua vita, non ha fatto altro che rive­larci questo volto di Dio”. È parlando di un Dio che si fa vicino ai più poveri che mons. Giusti si è rivolto a frà Federico Michele Sacchet, nell’omelia della sua ordinazione diaconale.

“Con il voto di povertà – ha continuato il Vescovo – hai già fatto la scelta volontaria dello stato di povertà, confermata dal voto a Dio di conservarsi in tale stato per tutta la vita come mezzo della propria perfezione spirituale. Il voto di povertà è tipico della vita religiosa e, se è solenne, comporta l’obbligo dei religiosi che lo hanno emesso, a non avere niente di proprio. Aspetto fondamentale della povertà religiosa è la povertà di spirito, che consiste nell’umiltà, nella mitezza, nella mansuetudine, nell’operare nel nascondimento senza ricevere onore, nell’occupare il posto più basso fra tanti, nel non cercare il proprio interesse ma quello del prossimo, nel portare con serena gratitudine la propria croce, nel sentire di essere in debito con tutti, nel concepire se stesso in termini di gratuità e non di tornaconto, nel cercare solo la volontà di Dio e non la propria, la sua amicizia e non quella di persone influenti.

Il voto di povertà tocca la virtù della speranza, quindi la sicurezza e la capacità di abbandono. Nel voto di povertà è coinvolto il rapporto con le cose e con il creato, il possesso di beni personali (anche qualità, doti, cultura, sapere…). La povertà rende liberi dalla schiavitù delle cose e dei bisogni artificiali a cui spinge la società dei consumi e fa riscoprire Cristo, l’unico tesoro per il quale valga la pena di vivere veramente.  La povertà di Gesù si manifesta nella sua totale dipendenza dal Padre, dal quale riceve tutto. Essa si incarna nella vita concreta di ogni persona. La sfida della povertà è relativa all’identità della persona, più che alle sue comodità. La scelta della povertà infatti suggerisce un ritorno su se stessi. Si tratta di giungere a una consapevolezza nuova: quella della propria persona privata delle sue estensioni: queste infatti sono delle illusioni, dei falsi sé. Non si tratta dunque della povertà in riferimento alle cose, ma della povertà in riferimento ai simboli: spesso infatti siamo legati anche a piccole cose per il legame affettivo delle persone che ce le hanno regalate oppure perché collegate ad un momento particolare della nostra vita. Hai scelto di essere povero per essere ricco di Cristo.

La carità «è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt 22, 36­40), la carità è tutto per­ché, come insegna san Giovanni (cfr 1Gv 4,8. 16J, dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza».[1] La carità «è “grazia”. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr. Gv 1 3,1) e “riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5). Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità».

Tutto questo è vero per ogni uomo, e lo è ancor di più per co­loro che nella Chiesa hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine: vescovi, presbiteri e diaconi.

Quella dei diaconi è una vera e propria configurazione a Cristo­ servo significata efficacemente dalla preghiera di ordinazione, nella quale il vescovo chiede a Dio Padre che essi «siano pieni di ogni virtù: sinceri nella carità, premurosi verso i poveri e i deboli, umili nel loro servizio, retti e puri di cuore, vigilanti e fe­deli nello Spirito. (…) Sostenuti dalla coscienza del bene com­piuto, forti e perseveranti nella fede, siano immagine del tuo Fi­glio, che non venne per essere servito ma per servire». Potranno così far sperimentare al­l’uomo l’amore di Dio e indurlo alla conversione, ad aprire il suo cuore alla grazia. Dal punto di vista dello “stile”, il diacono serve la carità con il proprio essere, prima ancora che con il fare”.

“Carissimo – ha concluso mons. Giusti – tu già vivi da tempo la povertà, la ami, ne conosci i morsi, le fatiche e la bellezza. Potrai comprendere meglio di altri chi la povertà la subisce perché non l’ha scelta e al contempo potrai aiutarli a cogliere in essa tante opportunità. Non solo, essendo povero con i poveri, potrai meglio di altri far trasparire la tua unica ricchezza, Cristo, e condividerla con loro. Dio voglia che tu riesca a farli ricchi di Cristo al punto tale da fargli nascere il desiderio e la vocazione di essere poveri e ricchissimi al contempo per scelta, nella vita monacale”.


[1] Benedetto XVI, lettera enciclica “Caritas in veritate”,