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Testimoni di fede: Riccardo Racca
Sono nato in ambiente rurale in provincia di Cuneo. Alla fine della scuola elementare un compagno di classe mi segnalò che sarebbe andato a studiare dai salesiani in città, a Fossano. Decisi ad andare con lui, senza sapere bene che cosa facessero i salesiani se non far giocare noi ragazzi su un grande campo da calcio. Dopo le medie, mi fu domandato se mi sarebbe piaciuto diventare salesiano coadiutore. Ero primo di cinque figli, sentivo la responsabilità di aiutare la famiglia con il lavoro; ma mio padre mi incoraggiò a seguire la mia strada. Ho cominciato la vita salesiana non sapendo niente dei salesiani e di Don Bosco poco. Ma un passo alla volta…
Mentre insegnavo nelle scuole professionali di Valdocco, nel 1996 l’ispettore mi chiese la disponibilità ad aiutare un missionario anziano in Nigeria: gliela diedi, con l’intenzione di completare il servizio in pochi mesi e poi di ritornare a Torino. Lo stesso ispettore un anno dopo mi domandò se avevo maturato una vocazione missionaria: gli dissi che non ci avevo pensato, e lui mi disse: “Torna in Nigeria e pensaci”. Da allora sono passati vent’anni di missione in Africa.
Sono una persona seria ma mi piace raccontare le cose in maniera un po’ colorita: qualche volta chi mi ascolta resta stupito, non distingue la verità dallo scherzo. Una spagnola che la scorsa estate è venuta volontaria per qualche settimana in missione mi ha detto che quello che dico occorre ripensarlo due volte perché non si sa che cosa è detto sul serio.
Sono stato insegnante di meccanica ed economo nella comunità dei salesiani in Nigeria, dovendo imparare da zero l’inglese e qualcosa degli idiomi locali. È stata una sfida che ho accettato. L’impegno si è trasformato da quello di chi va per “insegnare” a quello che va per “imparare”. D’altra parte, perché dovrei fare in Africa le cose come le facevo in Italia? Qui ogni persona e ogni gruppo hanno bisogno dei loro tempi per maturare le decisioni e per realizzarle. Occorre molta umiltà in missione, non dobbiamo pensare di essere noi a “salvare” qualcuno o una società.
Sono stato vittima di qualche “incidente”, come l‘aggressione subita in casa con i miei confratelli da ladri violenti. Ma sono ancora qui a raccontarlo, e questo mi basta.
Nel 2011 è maturata l’esigenza di trasferirmi in Ghana. Qui seguo varie attività fra le quali ha assunto un ruolo di primo piano la “Green House”: si tratta della serra che forma i giovani alla coltivazione di verdure durante tutto l’anno. Il clima e il terreno consentono qui di sviluppare un’agricoltura che non sia di sola sussistenza. Sono contento perché qualcuno dei giovani che seguiamo ha capito attraverso questa esperienza che può costruirsi una professione con le sue mani oltre che con la sua testa. Questa è una risposta concreta al desiderio-bisogno di emigrare di tanti: non a caso questo progetto rientra fra quelli della grande campagna “Stop Tratta”. Nella mia testa c’è sempre stata questa idea: non dobbiamo fermarli a metà strada, quando vogliono sbarcare sulle nostre coste, ma dobbiamo fare in maniera che le persone possano vivere nel loro ambiente naturale, che qui abbiano anche un futuro.