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Terzo settore in difficoltà
Tra i 50mila nuovi poveri che si sono messi in fila fuori dalla mense di mezza Italia solo negli ultimi tre mesi c’è anche Giorgio. L’affitto, le bollette aumentate, il pieno alla benzina per andare al lavoro, i farmaci per la moglie malata cronica: «Se pago tutto, non avanza niente per mangiare. Se mangiamo, devo togliere la benzina». Ma la benzina non la regala nessuno, i pasti sì, e allora eccolo sotto il sole ad aspettare il suo turno, con la borsa da riempire e portare a casa per tutti gli altri (che sono due figli piccoli, oltre alla moglie).
In quella fila da inizio marzo sono entrati i profughi ucraini, i cassintegrati delle aziende che hanno fermato la produzione per i costi alle stelle dell’energia, persino qualche studente fuorisede che non riesce più a pagarsi le spese. Niente di nuovo, per chi sta dall’altra parte del banco a dare il pane quotidiano, veder crescere il numero di chi lo chiede: è la prima linea dell’emergenza povertà, quella che risponde all’esigenza immediata ed elementare della fame, senza l’ambizione di risolverla. Di pane, però, adesso ce n’è sempre meno anche per chi aiuta. E di pasta, di frutta, di verdura.
«Dall’inizio della guerra stiamo registrando un calo della donazione di eccedenze da parte di alcuni segmenti della filiera agroalimentare con picchi del 35% nel settore ortofrutticolo e un calo delle donazioni economiche a sostegno dell’attività del 36%» spiega il presidente di Banco Alimentare, Giovanni Bruno. Le aziende hanno tagliato la produzione a causa dei costi, gli avanzi scarseggiano, la beneficenza è un lusso per pochi. La siccità e la riduzione dei raccolti, specie in Italia, hanno fatto il resto. Una congiuntura che, se unita all’aumento dei costi per l’attività di recupero e redistribuzione del cibo (l’energia serve per tenere accesi i frigoriferi, la benzina per far circolare camion e container, costi aumentati di oltre il 40%), «potrebbe presto ridurre la nostra capacità di far fronte a tutte le richieste di aiuto».
Non è tutto. Nelle scorse settimane c’è stato un blocco temporaneo della fornitura di pasta da parte dell’Agea, l’ente gestore degli aiuti del Fondo Nazionale e dei Fondi Europei. Alcuni bandi si sono dovuti ripetere a causa dell’aumento dei prezzi «e questo – continua Bruno – è uno dei canali attraverso il quale raccogliamo gli alimenti che distribuiamo alle strutture caritative che aiutano le persone in difficoltà (7.500 da Nord a Sud, per un totale di oltre un milione e mezzo di persone sfamate, ndr). Temiamo che la crescita dei costi delle materie prime e dell’inflazione possano provocare nei prossimi mesi una contrazione del canale Agea del 20-25% per alcuni prodotti e, dall’altra parte, un aumento dei poveri stimato tra i 500mila e il milione entro la fine dell’anno. Questo, aggiunto alle minori donazioni di eccedenze da parte delle aziende di cui si diceva, significherebbe una diminuzione sostanziale della capacità di supportare le strutture caritative e di conseguenza le persone in difficoltà».
La fotografia scattata dall’Istat – già di per sé drammatica – potrebbe insomma essere solo un assaggio della nuova emergenza che il Paese sarà chiamato ad affrontare nei prossimi mesi. Dopo quella del Covid, che da due anni ha costretto il mondo del volontariato a ripensare i suoi strumenti nell’ottica della sola straordinarietà. È il motivo per cui il Banco, per esempio, sta pensando a nuovi appelli e nuove modalità di raccolta già a partire da settembre (nel frattempo ha preso il via la campagna estiva Donare di gusto #WeCareTogether).
Ma le preoccupazioni non agitano solo la prima linea della risposta alla povertà. Se il rapporto dell’Istat non riserva grandi sorprese per Caritas – che già nei mesi scorsi aveva intercettato l’aumento delle problematicità nella rete dei suoi empori e dei centri di ascolto –, gli occhi qui sono tutti puntati sulla situazione(continua a leggere https://www.avvenire.it/attualita/pagine/nuovi-poveri-grido-di-allarme-del-volontariato-cibo-aiuti-a-rischio)