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Riuscire a trovare un equilibrio tra cure e malato
“Le cure palliative sono un tentativo umano di compagnia nella cura e di ricerca di un significato insieme che in una società plurale come la nostra si pongono sul mercato con – usiamo la parola – presunzione di giocarsela alla pari con altre proposte e addirittura di verificare se sono più affascinanti di altre proposte”.Così si esprimeva il prof. Maltoni “Coordinatore della Rete di Cure Palliative della Romagna” in un incontro pubblico sul tema. Purtroppo le cure palliative dopo tanti anni in Italia sono ancora un po’ fraintese: o come approccio sociale buonista come terapia del dolore, o come tentativo implicito, chiamiamolo così, di desistenza teraupetica e cioè di fare un po’ pochino.Tra abbandono e ostinazione terapeutica dell’accanimento. Ma le cure palliative vere non sono questa cosa: sono un attenzione attiva, personalizzata, che si fa in equipe anche perché il fine vita riguarda anche quei bisogni che non necessariamente sono di fine vita: “Che cosa è l’uomo perché te ne curi” si chiede l’autore del salmo 8.Nel dettaglio quando uno sta male fisicamente cambia la vita, il dolore, il vomito, l’affanno a respirare, la fiacca mortale, la spossatezza totale, si parte di lì per entrare poi nei processi decisionali: “ha senso fare ancora questa cosa oppure no”. La cosa difficile è riuscire a trovare un equilibrio fra la correttezza clinica e la percezione soggettiva del malato. Una volta, infatti, sapeva tutto il dottore, adesso c’è il rischio che l’ammalato sappia tutto, la sintesi fra quello che il malato sente, desidera, la gravosità di ciò che è per lui e l’indicazione clinica. In questa relazione di cura sono importanti i soggetti coinvolti: il paziente prima di tutto ma poi i medici e gli operatori, ma anche i familiari. Talvolta sono proprio quest’ultimi che insegnano agli operatori il contatto, altre volte, gli operatori si fanno carico dei familiari più in difficoltà con i medici in una sorta di educazione reciproca.Il professor Maltoni descrive le curie palliative come un approccio globale sia organizzativamente perché copre tanti assetti, tanti ambiti, l’ambulatorio, il reparto , l’ hospice, la domiciliare ecc., e favorisce la continuità di cura, ma è globale anche perché si tratta di un approccio unitario e spiega: “ a me ha sempre affascinato questa cosa che la mia parte umanistica e la mia parte tecnico-professionale non sono due binari, due rotaie che non si incontrano mai, ma è la sintesi del mio approccio a una persona che ha dei bisogni di varia natura sia fisici, psicologici, spirituali ecc. Una ricerca di senso insieme e una custodia dell’istante anche nella fase finale della vita” – racconta – di un giovane marito, dopo che la moglie era stata quindici giorni nell’hospice venne a salutare mi disse: “dottore lei non ci crederà ma io e mia moglie non siamo stati così vcini come in questi quindici giorni di ricovero in hospice ”. E un altro piccolissimo e sintetico rapido esempio, un imprenditore che era stato ricoverato per attendere il viaggio in Svizzera, nei quindici giorni di attesa con la cura di cui era oggetto con i nipotini, con i familiari eccetera, quando è venuto il momento di partire, non è partito. Ora non è detto che le cure palliative risolvano tutte queste cose, ma di sicuro sono un “sine qua non” per affrontarle.
Alcuni paesi come l’Olanda e il Belgio vedono nell’eutanasia l’ ultimo passaggio delle cure palliative. Non era questo il richiamo di Cicely Sauders, fondatrice delle cure palliative, che in una lettera del ‘93 scriveva: “Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta dei pazienti molti si sentirebbero un peso per le loro famiglie e per la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia, ne risulterebbe come grave conseguenza una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione privandoli così della loro libertà”. La cultura che c’è dietro questa tipo di legislazione si sente in dovere di allargare il tiro delineando un cambiamento di mentalità per es. l’allargamento di indicazioni a persone con sofferenze con terminalità sia psicologiche, sia psichiatriche, sia mentali, oppure richieste di eutanasia per “vita completata” per cui è sufficiente essere ultra settantacinquenni e un po’ stanchi e dire di avere completato il proprio circolo vitale per chiedere la dolce morte. Quindi è come se lo stato questa morte medicalmente assistita non la vedesse più come una soluzione di ultima spiaggia, ma come una proposta valida fra le altre, da promuovere come una conquista di civiltà.
Si deve parlare – osserva ancora il professore – “con tremore e pudore” di chi sta male e in queste situazioni, anche quando si è in una sala riunioni o quando ci si accinge a scrivere un articolo per un giornale, perché la frase di quel marito è l’esito di un percorso umanamente inimmaginabile, tanto che ha suscitato nel mio personale le domande “ ma chi è questo qui, ma come fa a dire così” . Si tratta di un percorso che è drammatico, qualcuno ha citato la parola “insopportabilità. A questa sofferenza che può essere di giorni ma di settimane mesi, anni, una sofferenza che segna una vita. Si parte da questa insoportabilità umana e in un percorso di maturazione personale familiare amicale, di tribù allargata che non toglie quella sofferenza ma apre alla accettabilità e alla significanza dell’istante presente, di quello che c’è adesso, di quel dolore che c’è adesso ha un senso o no, se mi guarda negli occhi qualcuno mi aiuta a capire cosa sto vivendo in quel momento, dell’istante presente e delle relazioni in atto come un istante di bene che ha un valore infinito, che ha un per sempre è “per un per sempre”. Ultima riflessione – conclude il professor Maltoni – questo percorso di significanza essendo l’ultimo, non è possibile solo ai credenti. Tanti ammalati, tanti familiari, tanti operatori oggi sono non credenti, la stragrande maggioranza, ma abbiamo tutti in comune, questa comune vulnerabile umanità che ci assimila, cioè questo senso di incompiutezza, questo desiderio comune di essere voluti e di essere curati da qualcuno. Su questo desiderio comune, si potrebbe dire, su questa “irriducibiltà del cuore” è possibile per tutti di costruire un percorso personale dentro un rapporto di cura dentro una relazione umana, significativa, qualcuno che ti guarda con affezione che ci tiene a te che rappresenta l’unica forma vera di “qualità di vita”, la vera qualità di vita è lo sguardo di bene su di te non che io possa andare in bagno da solo perché verrà un momento che io non riuscirò ad andare in bagno da solo. E’ possibile, dunque, arrivare a questo punto che questa modalità di vivere e di affrontare tutto, compresa la malattia, resti più attraente di altre modalità. Il politico, il legislatore e il professionista devono, ciascuno facendo il proprio mestiere, trovare la strada perché chi vuole curare e chi vuole essere curato lo possa fare nelle condizioni più umane.