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No, l’utero in affitto non è una pratica del dono

E così si torna a parlare di ‘utero in affitto’, più lievemente chiamato ‘maternità surrogata’ o, ancora, ‘gestazione per altri’ (Gpa), in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi. Se ne parla e si pensa di di legiferare in modo meno aggirabile, qui in Italia, dove la pratica è vietata e i casi continuano. Va detto subito: la relazione ‘naturale’ tra la madre, che porta in seno per nove mesi un figlio, subisce in tale pratica una violenza distruttrice, dal momento che il frutto del grembo viene strappato dalle braccia della partoriente, per essere destinato ad altra figura femminile, la cosiddetta madre sociale.
Si è più volte messo in luce il dramma di queste ‘donne- incubatrici’, meno il trauma del nuovo nato che, seppure ancora in modo inconsapevole, viene allontanato da chi l’ha ospitato nel proprio corpo, divenuto ormai corpo sociale, strumento pubblico, utilizzato di chi ha commissionato quella creatura. Il legame originario, fisiologico e psicologico insieme, non riproduce meramente una rappresentazione ‘tradizionale’ o ‘ideologica’, come certa pubblicistica tende ad affermare, ma segna l’inizio di un legame che si rafforzerà tramite i vissuti significativi che nel tempo intercorreranno tra figlio e madre. L’interruzione violenta di quel primo contatto originario quanto peserà sul destino futuro di questo bambino? Non è ancora dato di sapere, mancando al momento una letteratura specifica che si svilupperà inevitabilmente fra qualche decennio. Ciò nonostante, siamo consapevoli del peso della responsabilità che grava su di noi in riferimento alla vita futura dei nuovi nati?
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