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Nell’anniversario del curato di Ars
una lettera ma per certi versi disegna una biografia. Meglio, l’identikit del bravo sacerdote, che spende la vita per Dio e per gli altri, come fa la grande maggioranza dei preti. Nel giorno che, a 160 anni dalla morte celebra il santo Curato d’Ars, il Papa lo indica come modello dei pastori tutti, a cominciare dai parroci, di cui san Giovanni Maria Vianney è patrono. Un modo puntuale e affettuoso con cui il Pontefice vuole ringraziare il servizio silenzioso dei tanti “fratelli presbiteri” che quotidianamente «ci mettono la faccia senza darsi troppa importanza » perché «il popolo di Dio sia curato e accompagnato». Interpreti di quella grandezza nascosta, lontana dalle luci della ribalta mediatica, che si spende senza protagonismi plastificati nella guerra quotidiana all’abbandono e alla discriminazione, nelle trincee della lotta contro l’ingiustizia, nella denuncia delle offese ai danni dei poveri. Sacerdoti forti della preghiera e della docilità all’azione dello Spirito, umili testimoni di quella logica del Vangelo che guarda ai malati più che ai sani, che invita a non giudicare e promette i primi posti agli ulti-È mi. Senza, naturalmente, che questo significhi dimenticare i problemi, le inadeguatezze, le colpe di chi ha tradito il proprio ministero.
La lettera si apre infatti con il richiamo allo scandalo degli abusi. «Negli ultimi tempi – scrive il Papa – abbiamo potuto sentire più chiaramente il grido, spesso silenzioso e costretto al silenzio, dei nostri fratelli, vittime di abusi di potere, di coscienza e sessuali da parte di ministri ordinati». Una consapevolezza che mentre sottolinea la necessità di «una cultura della cura pastorale» che metta al centro chi ha subito e rifiuti ogni forma di omissione e copertura, non può e non deve far dimenticare «tanti sacerdoti che, in maniera costante e integra, offrono tutto ciò che sono e hanno per il bene degli altri e portano avanti una paternità spirituale che sa piangere con coloro che piangono». Preti, e sono innumerevoli, capaci di fare «della loro vita un’opera di misericordia in regioni o situazioni spesso inospitali, lontane o abbandonate anche a rischio» di se stessi.
A loro, soprattutto a loro, Francesco indica come parola chiave, come valore essenziale di riferimento, la “gratitudine”. Perché sì c’è bisogno di ringraziare i sacerdoti «per la fedeltà agli impegni assunti», per la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, per il sacramento della Riconciliazione amministrato «senza rigorismi né lassismi», per l’annuncio del Vangelo fatto a tutti «con ardore». Ma al tempo stesso sono i preti a dover dire grazie. Sono loro a sentire il bisogno di glorificare Dio per la vocazione che più che «una scelta nostra, è risposta a una chiamata gratuita del Signore ». Una consapevolezza questa, per certi verso un “privilegio” che non va mai dimenticato, specie quando le cose sembrano andare male. «Nei momenti di difficoltà, di fragilità, così come in quelli di debolezza e in cui emergono i nostri limiti, quando la peggiore di tutte le tentazioni è quella di restare a rimuginare la desolazione – sottolinea in proposito il Vescovo di Roma – è importante – persino oserei dire cruciale – non solo non perdere la memoria piena di gratitudine per il passaggio del Signore nella nostra vita, la memoria del suo sguardo misericordioso
che ci ha invitato a metterci in gioco per Lui e per il suo popo-lo, ma avere anche il coraggio di metterla in pratica».
Già il coraggio, virtù a sua volta proposta dal Pontefice come ulteriore parola chiave. Coraggio che significa accettare e affrontare la sofferenza, il dolore, l’incomprensione, per permettere al Signore di trasformarli. Ma anche, coraggio nel rifiutare quello che Bernanos definiva «il più prezioso elisir del demonio » cioè «la tristezza dolciastra che i Padri dell’Oriente chiamavano accidia» una condizione che «paralizza» la volontà «di proseguire, nel lavoro, nella preghiera», risorsa fondamentale, quest’ultima, per ricondurre ciascuno, i preti in primis, alla propria condizione di creature». È nella preghiera – sottolinea Bergoglio – che sperimentiamo la benedetta precarietà che ci ricorda il nostro essere dei discepoli bisognosi dell’aiuto del Signore» ed è nella preghiera che si avverte con più chiarezza la necessità «dei due legami costitutivi dell’identità sacerdotale». Con Gesù innanzitutto e poi con il popolo, in modo da diventare, da «essere artigiani di relazione e comunione, aperti, fiduciosi e in attesa della novità che il Regno di Dio vuole suscitare».
Lo sguardo infatti, senza dimenticare il valore della memoria, deve concentrarsi sull’oggi e aprirsi al domani. Tempi diversi della vita, nostra e degli altri, che tuttavia, se letti nella logica del Vangelo, hanno un un filo comune, una costante, un tema guida: l’esigenza della “lode”. Cioè l’ultima parola chiave indicata dal Papa, concetto che ha in Maria la sua icona. «Donna dal cuore trafitto » infatti la Vergine «ci insegna la lode capace di aprire lo sguardo al futuro e restituire speranza al presente». Ecco allora che di fronte alla tentazione «di isolarci e rinchiuderci in noi stessi» quando «lamenti, proteste, critiche o ironia si impadroniscono del nostro agire», occorre guardare a lei affinché purifichi i nostri occhi da ogni “pagliuzza” che potrebbe impedirci di essere attenti e svegli per contemplare e celebrare Cristo in mezzo al suo popolo». Perché il centro del ministero sacerdotale sta proprio lì, nell’avere il cuore e la mente sempre concentrati su Gesù per poi aprirsi, sotto la sua guida, al servizio degli altri. Lo sapeva bene il santo Curato d’Ars per il quale il Signore è necessario alla nostra vita come e più dell’aria che respiriamo. «L’uomo – diceva – fu creato per amore: per questo egli è tanto portato ad amare. D’altronde egli è così grande che nessuna cosa può sulla terra appagarlo. Non è contento, se non quando si volge a Dio… Fate uscire un pesce dall’acqua, e non vivrà. Ebbene, ecco l’uomo senza Dio».