Nella vecchiaia non abbandonarmi

Domenica 28 luglio si celebra la 4ª giornata mondiale dei nonni. Una giornata voluta dalla Chiesa nella domenica più vicina alla festa dei nonni di Gesù, Gioacchino e Anna, che si ricordano il 23 luglio. Sempre più preziosi per la nostra società, anche se spesso dimenticati (stando al più recente censimento del 2022, risultano esserci nel nostro Paese ben cinque anziani per ogni bambino, un dato che fa riflettere), i nonni sono un sostegno fondamentale per tante famiglie; sostegno morale, sostegno economico, sostegno educativo… l’amore di un nonno, di una nonna, è un pilastro nella crescita umana. 

E papa Francesco nel suo messaggio (https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/nonni/documents/20240425-messaggio-nonni-anziani.htmlha voluto sottolineare non solo la preziosità di queste figure, ma anche l’importanza di non lasciarli soli. Ecco un articolo di Luciano Tosco su Avvenire che commenta il tema di quest’anno.

L’invocazione del Salmo: “Nella vecchiaia non abbandonarmi”, tema della quarta Giornata mondiale, per la Chiesa, dei nonni e degli anziani che sarà celebrata domenica 28 luglio, esprime il timore di questa età per una condizione che oggi risulta particolarmente diffusa e preoccupante.

Una paura, che i nonni ben conoscono, presente peraltro anche nell’altro estremo della vita, quella bambina.

L’abbandono, causa ed effetto della privazione di relazioni tra pari e con le altre generazioni, non è solo dovuto a fattori “esterni”: familiari, sociali, di politiche di welfare. Ma dipende anche dalla difficoltà personale a saper generare nel corso della vita, e mantenere nella vecchiaia, buone relazioni, resilienti all’abbandono. Le più importanti capacità da esercitare allo scopo si comprendono pienamente da anziani, ma si apprendono, fin da piccoli, in particolare dai nonni, che grandi responsabilità hanno nel trasmetterle, testimoniandole, ai loro nipoti. Ma le esperienze umane di abbandono, dolore/solitudine che ne consegue e quelle dell’”essere in relazione”, assumono consolazione, fondamento e senso compiuto se “ancorate” al trascendente della “Teofania della Relazione” che è in Gesù Uomo/Dio: nella sua Vita, Morte e Resurrezione.

Le parole del salmo 71,9: “Nella vecchiaia non abbandonarmi” esprimono l’umano timore e il rischio dell’abbandono e della solitudine, ma anche la speranza del sostegno e della vicinanza per non incorrervi o almeno non cadere nei suoi effetti di depressione, mancanza di senso e prospettiva di vita.

Come anziano ancora attivo, ma con gli acciacchi dell’età e alcune patologie che i medici dichiarano “ben compensate”, almeno al momento, con i farmaci, mi trovo nella condizione di essere particolarmente sensibile a questa invocazione. Anche perché intorno a me osservo come il rischio di abbandono risulti, oggi, particolarmente rilevante per anziani e vecchi, quando diventano parzialmente o totalmente non autosufficienti.

Limitandoci al solo nostro Paese, si può osservare come, a fronte del sensibile, negli ultimi decenni, incremento della speranza di vita, non si riscontri un altrettanto soddisfacente aumento della sua qualità. Quasi quattro milioni di anziani necessitano di assistenza in quanto parzialmente o totalmente non autosufficienti. Di questi uno su tre vive da solo. Il “clima” sociale ed economico è caratterizzato dalla cultura dello “scarto”, per usare parole di papa Francesco, nei confronti della fisiologica condizione di fragilità, che, in nome dell’efficienza e produttività, produce marginalità ed esclusione. Le politiche pubbliche, nonostante rinnovate attenzioni normative e sociali grazie anche ad un importante contributo della Chiesa, offrono un aiuto ancora insufficiente. Si consideri, infatti, che oltre due milioni e mezzo di anziani bisognosi di aiuto sono assistiti esclusivamente dai familiari o si trovano di fatto in gravi situazioni di necessità, fino a vere e proprie forme devastanti di “eutanasia da abbandono”.

L’abbandono, non è semplicemente mancanza o perdita di occasioni di aiuto e sostegno per soddisfare propri bisogni materiali, psicologici e spirituali, quanto piuttosto privazione di “relazione”, a partire da quella con i più “prossimi” fino all’”oltre” della trascendenza, con Dio.

Il “non abbandonarmi alla tentazione” del Padre Nostro può essere inteso come tentazione al “peccato” quale rinuncia alla relazione con gli altri e con Dio attraverso Gesù (“Nessuno ha mai veduto Dio; l’Unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, egli stesso ce l’ha fatto conoscere” – Gv 1,18).

La carenza/assenza di legami umani, ma anche fondati sull’ “Oltre” è amara compagna di molte/troppe vecchiaie vissute con dolore, solitudine, caduta della stima di sé, senso della vita e speranza. Ma l’esperienza dell’abbandono e della solitudine che ne è la più dolorosa conseguenza, accompagna l’umanità, pur in forme e con intensità diverse, fin dall’ età infantile.

Gli effetti dell’abbandono della relazione sono devastanti, come hanno evidenziato gli studi sui bambini molto piccoli ospedalizzati. Peraltro, è ormai dimostrato che solo la presenza del tu, attraverso relazioni primarie con la madre e le altre figure significative, permettono l’instaurarsi dell’io e della percezione del sé.

Se come anziano temo l’abbandono, come nonno ne conosco la paura nei nipoti e cerco di rassicurarli. Conservo, con tenerezza, il ricordo del ripetuto saluto quotidiano della mia prima nipotina quando la lasciavo alla scuola dell’infanzia. Lo recitava quasi come un rito, più per rassicurare sé stessa che per pormi una domanda: “Se non viene mamma, venite tu o nonna a prendermi?”. E ancor oggi, quando non ci sono i genitori con loro, mi risuonano le parole della piccola Benedetta che chiede: “Ma voi vi fermate fino a quando non arriva mamma?”. Come nonno, però, non solo rassicuro i nipoti piccoli dalla paura dell’abbandono, ma vivo anche il mio e quello dei più grandicelli. Infatti, se da un lato considero con tristezza l’inevitabile diminuzione delle forze che pian piano non mi permetteranno più di essere di aiuto e sostegno ai nipoti, anzi, dall’altro assisto al loro allontanarsi, a partire dall’adolescenza, dopo anni di intenso rapporto perché piano piano scoprono e si incamminano verso un mondo nuovo e diverso. E penso ad Agnese, la prima adorata nipote di dieci anni, che mi dice di non poter venire con i nonni in montagna, causa “pigiama party” di fine settimana a casa di una amica. Giulia, la seconda, è venuta e volentieri, ma fino a quando? E i due più piccoli che adesso ti corrono incontro gridando “i nonni, i nonni” e subito vogliono giocare con noi, fino a quando lo faranno?

Ma, come raccontano i molti nonni e nonne che conosco e hanno nipoti adolescenti o ormai adulti, il legame e la relazione, se instaurati da piccoli, quando si “affidavano” a noi, rimane anche se si trasforma profondamente. Così spesso gli adolescenti si confidano con i nonni e da giovani sentono il desiderio di “restituire”, come quella studentessa che aveva piacere di accompagnare il vecchio nonno, che l’aveva accudita da piccola e ora costretto sulla carrozzina, a fare lunghe passeggiate o gite in auto.

La relazione profonda non abbandona, ma diventa diversa, anche radicalmente. Non si nega, ma si trasforma. Spesso siamo portati, non a torto, a considerare l’abbandono quale effetto di responsabilità altrui, siano esse familiari che sociali o di politiche di welfare. Ma certo dipende anche da noi saper generare e mantenere buone relazioni resilienti all’abbandono.

continua https://www.avvenire.it/famiglia/pagine/cari-nonni-ecco-come-non-sentirsi-abbandonati?mnuid=522ga3ba2g62bfb262793cb5889559c288800f0c0891122729&mnref=s3e6%2Co44bd&utm_term=17597+-+Vai%3E%3E&utm_campaign=NOI+IN+FAMIGLIA&utm_medium=email&utm_source=MagNews&utm_content=23+-+FAMIGLIA+-+21+luglio+2024+%282024-07-21%29