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Martedì 3 novembre esce per Mondadori «L’appello»
«Un prof chiamato Omero. È cieco ma è l’unico che sa guardare i ragazzi». La storia prende le mosse dal nuovo incarico che viene assegnato a Omero Romeo, insegnante che ha perso la vista. La sua cecità sarà la chiave che condurrà i ragazzi verso la conoscenza
Nel suo ultimo romanzo, «L’appello», troviamo una classe di alunni difficili e un professore cieco. Perché? «Perché noi vediamo i ragazzi ma non li ascoltiamo, non li sentiamo. Se vogliamo cambiare davvero la scuola, dobbiamo partire da qui: restituire loro una presenza. E un nome. Una persona senza vista è in disarmo, la vita gli accade. E vede più di altri». Omero Romeo non ci vede ma finisce per capire gli alunni meglio degli altri professori. Questo vuol dire che «gli occhi sulla scuola», tema ricorrente oggi, non bastano? «È uno sguardo autoreferenziale, che si posa su tante cose ma non sugli stessi ragazzi. Siamo diventati esseri oculari, che guardano tutto e non vedono nulla. Il tatto? Dimenticato, anzi le mani sono associate solo alla violenza. Finiamo per non vedere l’essenziale. E per non sentire la personalità degli alunni. Non penso solo alla infinita discussione sui banchi a rotelle che ha occupato l’estate. Penso per esempio ai loro nomi. Ma lo sa che molti insegnanti nemmeno ricordano il nome degli allievi?» Cattivi maestri? «Cattivo sistema scolastico, direi. Se un insegnante viene mandato in una scuola per rimanerci appena tre o quattro settimane, è chiaro che non avrà voglia nemmeno di memorizzare l’appello». Romeo, appunto, restituisce peso al loro nome con una forma originale e teatrale dell’appello.
Ma come siamo arrivati a questo punto? A questa spersonalizzazione della scuola?
«Perché per molti la scuola non è quello che dovrebbe essere, cioè un luogo dove si impara la vita. Per molti genitori è un parcheggio. Sono convinto che molte delle voci indignate di fronte alla chiusura delle classi e degli istituti oggi nascano da esigenze domestiche ben più pratiche». Ma c’è dell’altro. I colleghi di Romeo, nel romanzo, insistono su alcuni nodi e ammoniscono il prof «eretico» con raccomandazioni come: «Li conduca all’esame di Stato», «Segua il programma».
«È questo il punto più importante. In una società come la nostra, imperniata sulla produzione e ancorata all’idea di successo, la scuola per molti genitori non deve condurre i ragazzi alla crescita e farli diventare quello che sono, come avvertivano i Greci. Per molti genitori la scuola deve limitarsi a garantire successo e carriera ai figli. Un altro modo di spersonalizzarli». Dunque non più «diventa ciò che sei», ma «diventa ciò che ti dico che devi essere».
«Sì, è come sostituire il concetto di crescita con quello di prestazione. Ma la crescita è qualcosa che accade, qualcosa che include anche l’errore e, soprattutto, la conoscenza di sé. È quello che abbiamo tolto ai ragazzi. Il risultato è una generazione molto più fragile e un numero sempre crescente di genitori che contestano gli insegnanti».Li contestano quando non garantiscono quel successo, quando si mettono (secondo loro) di traverso e provano a educare. Per molti genitori i maestri che educano sono un intralcio, perché devono puntare alla prestazione. La nota, per esempio, il richiamo: sono cose che rallentano la corsa verso un ideale astratto. Ma vecchio: questa impostazione ottocentesca della scuola educava la classe dirigente di decenni fa.
Oggi il lavoro è cambiato: recuperiamo allora la relazione generativa tra maestro e allievo».