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Lubo
Svizzera 1939, Lubo è un nomade Jenisch che sta viaggiando con la moglie e i suoi tre figli di città in città, cimentandosi in spettacoli come artista di strada. Lungo la via l’esercito elvetico gli intima di abbandonare la famiglia e di presentarsi alla leva obbligatoria. Sotto le armi Lubo tenta la fuga, rubando l’identità di un commerciante austriaco: vuole a tutti costi ricongiungersi con i figli, forzatamente reclusi in istituti per l’infanzia. Inizia così un viaggio sotto mentite spoglie che si protrarrà nel corso del decennio ’50, dove Lubo farà i conti con le sue bugie ma anche con scomode verità ai danni della popolazione Jenisch…
Valutazione Pastorale
Bolognese classe 1959, il regista-sceneggiatore Giorgio Diritti in quasi vent’anni di attività cinematografico ha diretto solo una manciata di film, tutti accolti con grande successo da critica e pubblico: dall’acclamato “Il vento fa il suo giro” (2005) a “L’uomo che verrà” (2009), non dimenticano il pluripremiato “Volevo nascondermi” (2020), biopic sul pittore Antonio Ligabue, con cui ha ottenuto un premio alla Berlinale e ben sette David di Donatello, compreso quello per il miglior film. A Venezia80 partecipa in gara con “Lubo”, dal romanzo “Il seminatore” di Mario Cavatore, adattato per lo schermo dallo stesso Diritti insieme a Fredo Valla. La storia. Svizzera 1939, Lubo è un nomade Jenisch che sta viaggiando con la moglie e i suoi tre figli di città in città, cimentandosi in spettacoli come artista di strada. Lungo la via l’esercito elvetico gli intima di abbandonare la famiglia e di presentarsi alla leva obbligatoria. Sotto le armi Lubo tenta la fuga, rubando l’identità di un commerciante austriaco: vuole a tutti costi ricongiungersi con i figli, forzatamente reclusi in istituti per l’infanzia. Inizia così un viaggio sotto mentite spoglie che si protrarrà nel corso del decennio ’50, dove Lubo farà i conti con le sue bugie ma anche con scomode verità ai danni della popolazione Jenisch. “La lettura del romanzo ‘Il seminatore’ – racconta il regista – mi ha svelato vicende poco conosciute accadute in Svizzera per cinquanta anni, portandomi a riflettere sul senso di giustizia, sulle istituzioni, sul senso dell’educare e dell’amare. Ne è nato il film Lubo, da cui nello svolgersi degli eventi emerge quanto principi folli e leggi discriminatorie generino un male che si espande come una macchia d’olio nel tempo, penetrando nelle vite degli uomini, modificandone i percorsi, i valori, generando dolore, rabbia, violenza, ambiguità…”. Diritti firma un’opera dove alterna racconto storico, indagine civile e sguardi introspettivi.
Pedinando la figura del nomade Lubo si sposta con lo sguardo, la macchina da presa, tra memoria storica della guerra e sofferenze del singolo, un rifiutato dalla società. Lubo è il “diverso”, perché nomade, dunque apprezzato solo per far numero in battaglia ma non per godere di diritti civili. Gli vengono strappati i figli senza motivazioni, senza mai fornire scuse. L’uomo precipita in una vertigine di sofferenze che lo portano a lasciarsi contaminare dal male: viene ferito dalla vita e al contempo ferisce senza esitazione. Il film “Lubo” è una storia drammatica di vinti, senza che ci sia una chiara identificazione tra buoni e cattivi, tra giusti o sbagliati. Diritti affascina per la qualità della sua regia, dal respiro contemplativo e poetico. Il modo in cui dirige è sempre il punto di forza del racconto, perché sa imprimere intensità e lirismo alle immagini. L’opera nell’insieme sconta però un’eccessiva lunghezza, ben 180 minuti, e anche una narrazione un po’ ondivaga, limitando la messa a fuoco del tema portante. Per l’attore Franz Rogowski è l’occasione della carriera. Ottima anche la prova di Valentina Bellè, nel ruolo della cameriera Margherita amata da Lubo. Film complesso, problematico, adatto per dibattiti.