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L’iperconnessione è una piaga sociale
Che mondo si forma nella mente di chi, sin da bambino, passa ore e ore attaccato allo schermo di un “device”? Non c’è più un Jean Piaget che possa studiare questo enorme problema, ma di certo il mondo come se lo rappresentano gli utilizzatori intensivi di apparati elettronici non è più quello che il grande Ginevrino scoprì nella mente dei bambini dei suoi tempi. Della vita relazionale di quelli di oggi sappiamo qualcosa, perché nel 2007 la psicologa sociale statunitense Sherry Turkle fu tra i primi a descriverla in un libro di cui il titolo dà una sintesi perfetta: Insieme ma soli (in italiano da Codice, 2012). Poi l’attenzione si spostò sugli effetti del mondo digitale (la “mediasfera”) sull’intelligenza. Ci si chiedeva: Internet rende più stupidi o più intelligenti? Un mio libro del 2000 (La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza) argomentò che la mediasfera allora nascente stava già cancellando o intaccando in profondità diverse forme secolari di sapere e di conoscere, colpendo per esempio la lettura e, più alla radice, la cruciale distinzione tra reale e rappresentazione, tra vero e finto. Quel libro fu seguito da un lavoro di Nicholas Carr dal drastico titolo Internet ci rende stupidi? (Cortina 2012), che a questa domanda rispondeva di sì, insistendo sulle alterazioni cognitive. Dall’altro lato, invece, stavano i numerosi fan, come Howard Rheingold (Perché la rete ci rende intelligenti, Cortina 2012), secondo cui solo la mediasfera può dare accesso a una varietà di mondi altrimenti inimmaginabili.
Qualunque posizione si potesse prendere sulla questione negli ormai remoti anni Dieci, la situazione di oggi è radicalmente diversa. I “devices” elettronici sono molto più raffinati, incorporano l’Intelligenza Artificiale, si prestano a usi molto più estesi e coinvolgenti e coprono ambiti sempre più vasti della vita quotidiana, soprattutto attraverso i cosiddetti social. Inoltre, sotto forma di smartphone, tablets, giochi, smartwatch ecc. sono ormai nelle mani di miliardi di persone, in buona parte giovani e perfino ragazzi e bambini. Sebbene non siano disponibili ricerche di qualità certificata, da varie indagini recenti si desume che in Italia il 24,9% dei giovani passa sui social dalle due alle quattro ore al giorno, mentre l’18,8% arriva fino a dieci ore. Il tempo trascorso davanti allo schermo è sottratto alla preparazione scolastica, ai rapporti con gli altri, soprattutto con i genitori, magari impegnati a loro volta su uno schermo, allo sport, alla lettura, al sonno – insomma, è sottratto alla vita.
Il fatto è che i media digitali sembrano irresistibili, inestirpabili e insopprimibili. Un esempio di eccezionale evidenza ci è offerto da una notizia rivelata dal New York Times del 2 giugno, che non è mera cronaca, ma cronaca del futuro: al temibile Elon Musk è venuta in mente l’idea di portare, mediante satelliti e antenne appositamente piazzati, la connessione Internet fino al villaggio dei Marubo, un’etnia brasiliana da sempre isolata nella foresta amazzonica. Arrivati d’improvviso e gratuitamente, gli smartphone hanno dapprima affascinato la piccola tribù, poi l’hanno resa velocemente dipendente al punto che – raccontano i giornali – dopo nove mesi tutti hanno smesso di muoversi, di parlarsi e di lavorare. In altre parole, una trovata che serviva a mettere questa gente in contatto col mondo ha finito per escluderla dal proprio mondo! Questo è certamente un caso estremo, ma rappresenta una situazione diversa solo per grado da quel che vediamo attorno a noi: per ragioni misteriose, la mediasfera esercita su tutti una fascinazione medusea.
Ma che cosa trova un giovane nel mondo digitale, soprattutto nella sua forma social? Certamente, informazioni e soluzioni di problemi pratici (come la traduzione di passi greci e latini), ma soprattutto amicizie e contatti, anche se spesso fittizi e maligni. Può trovare e scambiare foto, video, musica, messaggi di ogni tipo. Queste risorse possono però anche servire per dare spazio a opportunità pericolose, come il revenge porn, il sexting (pratiche sessuali via immagini da smartphone), il challenge (sfide di gruppo a pratiche estreme, anche a rischio della vita), il mobbing, l’influencing e altre consimili invenzioni pericolose.
Portata dalla potenza delle reti e dei devices, dalla varietà delle app e dei social, e, al fondo, dal dominio planetario di multinazionali senza scrupoli e dai fatturati miliardari, l’invenzione è continua e ha vari aspetti di pericolo sociale. La rete contiene infatti anche uno sconfinato magazzino di tentazioni fatali: pornografia gratuita e liberamente accessibile, un immenso catalogo di violenze, di teorie strampalate e folli, di immagini immonde, di siti di commercio pericolosi, insomma un apparato di una potenza attrattiva con cui il mondo reale (e meno ancora la scuola) non può competere. Il finto è più forte del vero.
Qualche anno fa in Giappone (patria, almeno dagli anni Ottanta del Novecento, di molte delle mode ambigue della nostra gioventù: dai tamagotchi ai transformer, dai manga ai comics con personaggi dagli occhi immensi e dalla mimica alterata) hanno inventato lo hentai, pornografia pesante in forma di fumetto o di comics, con la stessa grafica e il sessismo estremo dei manga. Secondo lo studio dello psicologo statunitense Justin J. Lehmiller (sulla rispettata rivista Psychology Today, 14 dicembre 2022) più di un quarto degli americani hanno seguito nel 2020 qualche episodio di hentai, che intanto (secondo Le Monde del 5 maggio) si sta diffondendo in tutto il mondo. Chi saprà difendersi, tra i più giovani, da questa rischiosa novità? Una parte della violenza e della microviolenza di cui le nostre città soffrono deriva sicuramente da fonti simili, così come molte distorte concezioni e pratica circa il rapporto tra uomo e donna. Lo schermo si impone infatti sul reale, indebolisce la percezione della realtà e spesso ne prende il posto.
Gli utilizzatori intensivi di Internet e di social non sono in fondo troppo diversi dai Maruba brasiliani. Come loro sono a rischio di isolamento patologico. In Giappone il fenomeno, già radicato da tempo, è stato battezzato col termine hikikomori (“stare da parte”), che indica coloro che decidono di ritirarsi dalla vita per lunghi periodi (da pochi mesi fino a diversi anni), limitandosi a comunicare con le reti sociali. Sono apatici, distratti dallo studio e dalla lettura, disinteressati all’informazione politica, abituati allo zapping incessante da una schermata all’altra, cioè all’interruzione permanente di qualunque corso di azione o di pensiero. Ne derivano il declino delle istituzioni formative, il dilagare delle tematiche sessuali, l’assuefazione alla violenza, per non parlare della crescita dei pericoli di incidenti di circolazione.
Ce n’è abbastanza per considerare l’iperconnessione un problema di primario interesse pubblico, per le famiglie, la scuola e lo Stato in generale. Alcuni Paesi sembrano essersene accorti. L’anno scorso la Finlandia, una delle nazioni più digitalizzate al mondo, ha vietato l’uso dei cellulari a scuola. Anche in Francia il tema sembra emergere. Già nel programma elettorale del 2019 Emmanuel Macron aveva annunciato l’intento di limitare per legge l’accesso dei giovani ai devices. Nel 2018, l’allora ministro dell’educazione Michel Blanquer aveva promesso che ne avrebbe vietato l’uso nelle scuole elementari e medie, non solo nelle ore di lezione, ma anche durante la ricreazione. «I bambini non giocano più nelle pause, stanno tutti dinanzi agli smartphone e dal punto di vista educativo questo è un problema», dichiarò. A dispetto di questi propositi di battaglia, non sembra che però allora nulla sia stato fatto.(continua leggere https://www.avvenire.it/agora/pagine/iperconnessione-il-fattore-che-uccidel-interagir)