La lettera

Paolo Annunziato è un uomo che ha avuto ruoli di grande responsabilità. Oggi combatte con una malattia inesorabile. Mi scrive spiegando il sì all’eutanasia. Il referendum bocciato avrebbe però reso legale ben altro. Ma le Camere possono trovare una via umile e lungimirante.

Gentile direttore,le scrivo all’indomani della bocciatura del quesito referendario sull’articolo 579 del Codice penale e in relazione all’articolo del professor Mario Melazzini, pubblicato domenica 6 febbraio su “Avvenire”. Premetto che ammiro Melazzini per il suo impegno e la forza d’animo, ma vorrei provare a spiegare perché un malato di Sla, come io sono da sette anni, si sia pubblicamente espresso a favore di un referendum sull’eutanasia. In particolare, vorrei spiegare che dietro le diverse posizioni rispetto al tema c’è lo stesso rispetto della vita. Infatti, per un malato disperatamente attaccato alla vita, la scelta se continuare a vivere o meno, dipende dalla qualità della vita, che si compone di tanti fattori. Tra questi due hanno particolare peso: la vicinanza dei propri cari e condizioni economiche adeguate. Quando queste non sono presenti, e la Sla non fa distinzioni di reddito, allora fondamentale diventa il ruolo dello Stato e l’assistenza economica e socio sanitaria. In assenza di queste condizioni, un malato è tormentato dai sensi di colpa verso la propria famiglia, la cui vita è letteralmente massacrata dalla Sla. Non è facile immaginare le condizioni in cui vivono le famiglie Sla. Un malato, agli stadi più avanzati e inevitabili della malattia, non si muove, non parla, non mangia e non respira autonomamente, non comunica, se non, come me, attraverso un puntatore oculare, almeno fino a quando gli occhi non perdono la necessaria mobilità. In queste condizioni vivere non può essere un obbligo, ma una scelta. Non si tratta di dare libertà di omicidio, o di un disprezzo della vita. Si tratta di fornire a chi si trova in condizioni simili alle mie, la libertà di scelta tra una non-vita e una vita che può essere peggio della morte. E non si tratta neanche di un problema spirituale, ma di un requisito di democrazia e libertà in un Paese civile. Ripeto: sono attaccato alla vita, almeno quanto il professor Melazzini. Vorrei avere però la possibilità, o meglio il diritto, a interrompere la mia vita nel momento in cui non sopportassi più questa condizione assurda. E vorrei farlo in modo dignitoso. Di fronte a un Parlamento indifferente e a un sistema, quello delle cure palliative, che dopo oltre dieci anni ancora non funziona, la modifica referendaria mie era apparsa come l’unica effettiva possibilità di conquistare questo pezzetto di civiltà e democrazia.Paolo Annunziato

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