Diocesi
Io sono il pane vivo
Io sono il pane vivo
Quando si panificava in casa, una volta a settimana o ogni quindici giorni era chiaro il senso del pane vivo, quello fragrante di forno dal profumo inebriante che riempie la casa, che spinge istintivamente ad essere spezzato e mangiato perché meglio sprigioni gli aromi e i sapori. Questo è il Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo per l’uomo, che vive la relazione per…, diventato dono per…, messosi a servizio per….
Questo pane è la carne per la vita del mondo.
la mia carne per la vita del mondo
È significativo che Giovanni nel suo vangelo dedichi un intero capitolo (cap. 6) al discorso sul “pane di vita” con evidente riferimento allo “Spezzare il pane” (cfr At 2,42 ), che noi oggi chiamiamo Eucarestia (tra i tanti termini utilizzati nei secoli, la parola Eucaristia comincia ad affermarsi dal terzo secolo; il senso del gesto ha subito diversi influssi diretti o indiretti dei misteri ellenistici delle “teofagie” ed è stato variamente interpretato nei secoli fino ad arrivare al Concilio di Trento nel 1551 – sessione 13
Si afferma che ormai, quando Giovanni scrive il suo vangelo le comunità cristiane stessero già praticando il rito della Cena del Signore, come raccontato negli Atti degli Apostoli, dunque il racconto della istituzione sarebbe un di più. Si potrebbe anche pensare, però, che Giovanni inviti ad una correzione di quanto le comunità cristiane stavano celebrando, come fa san Paolo che corregge gli abusi della comunità di Corinto (1Cor cap 10 e 11). Se il rito è necessario all’uomo e è connaturale alla sua espressione, la ritualizzazione ne soffoca il significato e lo priva di contenuto; sintomatici sono gli interventi dei Profeti riguardo agli olocausti nel tempio.
Giovanni dedica ben cinque capitoli al racconto dell’ultima cena in cui descrive accuratamente la lavanda dei piedi, quando Gesù depone la sua vita ai piedi dei suoi discepoli e chiede di fare altrettanto. Ma racconta anche del tradimento e di un boccone che tragicamente perde il suo significato di comunione. C’è da pensare, soprattutto in questo periodo storico in cui le vicende sanitarie hanno impedito le celebrazioni eucaristiche (e lo stanno impedendo in altre parti del mondo) e ci hanno costretto a ripensare le modalità di partecipazione e di interiorizzazione del mistero del Corpo e Sangue del Signore.
non avete in voi la vita
Il problema non è un rito da compiere ma “avere in voi la vita”: la comunione profonda con il Figlio, così come Lui vive per il Padre.
Se questo non è l’obiettivo ogni rito perde il suo senso. La carne e il sangue che Gesù offre è il suo sacrificio per la vita del mondo, mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa entrare in questa ottica di sacrificio: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Il mistero della Croce incombe sulla vita di Gesù e sulla vita dell’uomo. La croce ci racconta la profondità del mistero della incarnazione: il “Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14), ha penetrato la vita fragile, ferita e mortale dell’uomo – la pandemia ce ne ha dato la misura -; quella carne fragile, ferita e mortale ci è offerta dal Signore per la vita eterna. Il Signore, scevro da ogni potere, umiliato e ucciso è Dio che manifesta la sua potenza nella estrema debolezza della carne.
se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue
Per sette volte Gesù, in modi diversi, ripete la stessa cosa: in modo negativo, poi affermativo, spiegando, rivelando cause e relazioni, comparando, confermando. Per sette volte ci chiede di mangiare: viene usato il verbo Trōgō che significa masticare, può sembrare un termine crudo che precede il nutrimento ma rappresenta nello sminuzzare con i denti il gesto che libera il gusto e nello stesso tempo il primo passo della digestione, della assimilazione. Gesù ci chiede di assimilare lui, la sua debolezza e la sua fragilità che si è offerta e fatta dono.
La fede cristiana ci dice che siamo relazione, comunione, si vive nell’Altro e per l’Altro. La comunione a cui siamo chiamati mangiando e bevendo non è per appagare la nostra fame e la nostra sete, come gli israeliti nel deserto, ma per la fame e la sete degli altri, vivere per Cristo in dono totale di sé.
Mangiare e bere non è compiacersi di un rito domenicale abitudinario e addomesticato alle nostre esigenze più o meno spirituali, che non costa nulla e non impegna. Piuttosto vivere la comunione con Gesù che ha chiaro: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34).