Immigrazione

Arif ha 32 anni ed è arrivato in Italia dal Pakistan. Ha fatto richiesta di protezione internazionale, ma una commissione del ministero dell’Interno non ha ritenuto sufficienti le motivazioni addotte. Lui ha fatto ricorso davanti alla magistratura ordinaria, come la legge italiana consente, ed è in attesa che il tribunale di Torino l’esamini. Solo che dovrà attendere parecchio, visto che la prima udienza del suo caso è stata fissata nel luglio 2025. A un suo giovane connazionale, Abdul, è andata leggermente meglio: prima udienza nel 2024. Con lui, sono in 115mila i cittadini stranieri che sopravvivono nel nostro Paese sospesi in una sorta di limbo giudiziario, con quattro anni in media di attesa per un sì o un no dei giudici sulla propria richiesta di protezione internazionale. Un’umanità dolente, quasi sempre in fuga da persecuzioni, guerre o calamità, che tiene in tasca un permesso provvisorio legato alla durata della causa e ha un accesso ai diritti basilari (sanitari, ad esempio) condizionato alla precarietà della situazione. A cosa sono dovuti tempi così lunghi? Intanto, è bene sapere che i ricorsi contro una pronuncia avversa delle commissioni ministeriali sono soggetti solo a due (su tre) gradi di giudizio: primo grado e Cassazione. Nei 26 tribunali distrettuali, se ne occupano apposite sezioni specializzate, con pochi magistrati assegnati e una montagna di fascicoli. Da Milano a Firenze, da Roma a Palermo,Avvenire è entrato dentro alcuni di quei tribunali, accompagnato da magistrati e avvocati, per raccontare cosa sta accadendo.

Centomila processi giacenti. Dal 2016, ricostruiscono i magistrati della corrente progressista di Area (che sul caso hanno messo a punto un circostanziato dossier), a fronte di «un flusso di circa 50mila procedimenti l’anno», si registra «una capacità di definizione delle sezioni di poco superiore alle 30mila decisioni», il che «ha determinato l’attuale pendenza di circa centomila casi presso le sezioni specializzate distrettuali». Con quali tempi? Lunghissimi, secondo i dati raccolti dalle toghe di Area: «I tempi medi prospettici della durata di un processo superano i 1.200 giorni, a fronte di una durata massima di 120 giorni fissata dalla legge in attuazione delle previsioni contenute nel sistema comune europeo dell’asilo», il cosiddetto Ceas, che «impone a tutti Paesi europei una risposta celere, adeguata e completa».

L’arretrato in Cassazione. Sul lungotevere, all’altezza del quartiere Prati, si staglia la mole imponente del cosiddetto Palazzaccio, dove ha sede la Suprema Corte. Anche nei suoi autorevoli uffici, giace una gran mole di cause pendenti di richiedenti asilo: fra i 12 e i 15mila procedimenti, secondo le stime, in un settore giurisdizionale unico in Italia per l’assenza del grado di appello. Dopo l’entrata in vigore della legge 46 del 2017, la riforma voluta dagli allora ministri di Giustizia e Interno Andrea Orlando e Marco Minniti, il giudizio di legittimità è divenuto l’unica forma di impugnazione e «ciò ha determinato gravi criticità dell’intero sistema organizzativo della Corte», considera Antonella Di Florio, magistrato in servizio come consigliere presso la Corte di Cassazione. «Il flusso delle sopravvenienze in materia di protezione internazionale – prosegue– ha avuto una forte ripercussione sul funzionamento della Corte di Cassazione, che è stata letteralmente “sommersa”, nel giro di pochi anni, da un altissimo numeri di ricorsi». I dati snocciolati dalla dottoressa Di Florio parlano da soli: «Nel gennaio 2017, le pendenze in materia di protezione internazionale erano 310, un anno dopo sono divenute 4.191; a oggi siamo arrivati a quasi 12mila controversie pendenti». Non solo: se il contenzioso tributario, com’è noto, determina in Cassazione il 30% delle pendenze nel settore civile, la sola protezione internazionale ne costituisce il 22% ed è in progressiva crescita.

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