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Il nuovo decreto lavoro
Come ogni Governo che si rispetti anche l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, ha approvato, nei mesi scorsi un “suo” Decreto Lavoro.
Nello specifico il decreto, in materia di misure urgenti per l’inclusione sociale (nuovo RdC e suoi derivati) e l’accesso al mondo del lavoro, è intervenuto a modificare, come da tradizione, anche la disciplina del contratto di lavoro a termine.
Ciò premesso, al fine di garantire l’uniforme applicazione delle nuove disposizioni il Ministero ha, nei giorni scorsi, fornito le prime indicazioni operative (e utili?) sulle innovazioni più significative anche in considerazione delle numerose richieste di chiarimento giunte all’amministrazione.
Nella circolare si vuole subito puntualizzare come il decreto abbia lasciato inalterato il limite massimo di durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato che possono intercorrere tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, che resta fissato in ventiquattro mesi, fatte salve le diverse previsioni dei contratti collettivi (in questo nuovo quadro particolarmente valorizzati), e la possibilità di un’ulteriore stipula di un contratto a tempo determinato, della durata massima di dodici mesi, presso la sede “protetta” dell’Ispettorato competente per territorio.
Con la nuova normativa non ha, inoltre, subìto variazioni il numero massimo di proroghe consentite (sempre quattro nell’arco temporale di ventiquattro mesi) e il regime delle interruzioni tra un contratto di lavoro e l’altro (il c.d.” stop and go”).
Con le nuove regole la maggioranza si è, quindi, proposta di valorizzare ulteriormente il ruolo della contrattazione per l’individuazione dei casi che consentono oggi di apporre al contratto di lavoro un termine superiore ai dodici mesi, ma in ogni caso non eccedente la durata massima di ventiquattro mesi come già previsto.
Ci si limita insomma a riaffermare la prerogativa, già in precedenza riconosciuta alla contrattazione collettiva, di individuare tali casi, purché ciò avvenga ad opera dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali delle suddette associazioni, ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
Il governo Meloni sembra, quindi, scommettere con forza, a differenza dell’impostazione del progetto di legge sul salario minimo dell’opposizione, sulla massima valorizzazione del contributo che le parti sociali possono dare per la costruzione di un mercato del lavoro maggiormente efficace e, se possibile, equo.
Solo il tempo saprà dire se le scelte compiute in materia di contratto a termine risulteranno quelle “giuste” e “vincenti”. Riuscire, infatti, a definire regole di “buona”, e necessaria, flessibilità che non si trasformi in “cattiva precarietà” (specialmente per giovani e donne) è una sfida che interessa, ed ha interessato, tutti i governi italiani, ma anche di altri paesi europei, negli ultimi decenni. Non esistono, tuttavia, risposte buone e già “pronte all’uso” per tutte le Nazioni, come direbbe la premier, e per tutti i diversi contesti storico-economici.