News
Il nome, la nascita e la frenesia della società dei like
«Tutti abbiamo ricevuto un nome quando siamo nati e in quasi tutte le culture sono i genitori a pensarlo per il proprio figlio. Ci hanno chiamati fin da piccoli». Così ha esordito Guadalupe Arbona Abascal, docente di Letteratura Comparata e coordinatrice Master in Scrittura Creativa all’Università Complutense di Madrid, nello spiegare il titolo della XL edizione del Meeting di Rimini, nel corso dell’incontro che si è svolto presso l’Auditorium Intesa Sanpaolo B3, moderato da Emilia Guarnieri, presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Ma se ci hanno sempre chiamati, perché il proprio nome dovrebbe nascere da ciò che guardiamo?
«Coscienze acute del nostro tempo hanno vissuto l’urgenza di nascere del nostro tempo, di nascere di nuovo, come Garcia Lorca o Camus», spiega la docente. «Giussani e Testori si confrontarono sul tema della nascita nel 1980, in una conversazione che parte dal gemito di Camus e da una generazione che soffre per l’assenza. È come se nella gioventù di quel periodo la nascita non fosse presente, se i giovani non avessero raggiunto la coscienza di questa esistenza, di essere stati voluti, diceva Giussani. Mentre oggi la ricerca di essere qualcuno diventa frenetica e si cerca di nascere in ogni istante, o di essere molti».
Condizione, quella attuale, molto diversa da allora, ma di certo non meno interessante.
«I giovani di oggi vedono le cose separate, dove ogni cosa vissuta deve essere abbandonata e sostituita dalla seguente. Si cerca di essere sé stessi nella possibilità e nei riflessi che offre la realtà virtuale, ogni nuovo like è un modo per esprimere l’esistenza. Si dice che gli algoritmi possano definire chi siamo, o che un algoritmo possa conoscere la persona meglio del padre o della persona stessa. Lo storico Harari parla di una cultura datacentrica. Si crede che il nostro io si risolva nel calcolo dei like, degli acquisti su Amazon o delle foto su Instagram. Ma i dati che lasciamo in rete sono sufficienti per definire chi siamo? Ci si cerca nelle molteplici possibilità, ma si può sperare che sia un pixel, un punto di colore, a permetterci di riportarci alla nostra origine?».
Ma se così fosse, che pixel avrebbe la realtà?
«Vogliamo essere preferiti e seguiti, abbiamo bisogno di qual-cuno che ce lo dica. Ma Giussani invita a immaginare una nuova nascita, e per me l’esempio è centrale. Se aprissimo gli occhi ora, con una nuova coscienza, cosa sarebbe più importante, le cose che abbiamo o lo stupore di una presenza?». Per la studiosa, infatti, «il pensiero di Giussani rappresenta una svolta antropo-logica di tale levatura che merita di essere esaminata sempre più seriamente. Una presenza che rende le cose vive e attraenti e permette che l’io viva un incontro: questa svolta antropologica proposta da Giussani funziona».
Un apporto speciale proviene dalla vicenda evangelica di Zaccheo, che «era ricco, fariseo, e non era ben vo-luto. Nessuno voleva stare con lui. Le donne lo evitavano, le anziane lo maledicevano e i giovani si giravano dall’altra parte. Perciò fu strano che Zaccheo uscì di casa quel giorno. Aveva sentito dire che il Galileo sarebbe passato per la città. Zaccheo aveva tutto e niente, e decise di andarlo a vedere. Si sentiva insicuro, temeva tutti e parlava solo con chi lo adulava. Andò nella piazza del sicomoro e gli venne l’idea di salirci su, perché l’unica cosa che desiderava era vederlo». Gesù lo guardò, mentre Zaccheo pensò che fu strano, perché era abituato a evitare gli sguardi, e gli parlò. «Nessuno lo aveva chiamato mai così. Fu guardato, e allora visse. Per lui tutto riprese colore, nacque di nuovo, diventò sciolto e sorridente. Camminava con un tesoro dentro di sé che non si poteva calcolare: il volto e il cuore di quello sguardo. Fu guardato da qualcuno che gli restituì la capacità di guardare tutto il resto».
A cura di Antonluca Moschetti