Guerra in Israele

Tre mesi e altrettante fasi. Giunta alla dodicesima settimana, la “guerra lunga” tra Israele e Hamas ha mutato di nuovo direzione. Dopo quello dei bombardamenti a tappeto cominciati subito dopo il massacro perpetrato dal gruppo islamista nei kibbutz del sud dello Stato ebraico e dell’incursione di terra avviata il 28 ottobre, è arrivato lo stadio dei raid mirati – dentro e soprattutto fuori dalla Striscia – con annessa riduzione e riorganizzazione delle truppe sul terreno. Il ritiro di cinque brigate dal nord dell’enclave è quasi completato mentre i riservisti torneranno a casa secondo un calendario di turnazione. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, però, l’aggiornamento in corso sembra confermare l’inquietante previsione fatta dal premier Benjamin Netanyahu la settimana scorsa: «Il conflitto andrà avanti per molti mesi». E il teatro potrebbe spostarsi a nord, ovvero lungo il confine con il Libano dove, non a caso, stanno venendo ricollocate le truppe in uscita da Gaza. Dal 7 ottobre, la tensione tra le forze armate israeliane – Tsahal, dall’acronimo – e la milizia filo-iraniana Hezbollah è stata costante per quanto contenuta. L’omicidio a Beirut del numero 2 di Hamas, Saleh al-Arouri, martedì, rischia di far saltare il fragile equilibrio. Da giorni il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah, minaccia «conseguenze». E, ieri, la milizia ha lanciato quaranta razzi verso la regione di Meron. Mentre, nelle ore precedenti, l’esercito di Gerusalemme aveva attaccato un centro di comando della formazione nel villaggio di Blida. Il pericolo è concreto. Da qui gli appelli dell’alto rappresentante, Josep Borrell, in viaggio in Libano, a «evitare l’escalation». Per ora, però, il copione sembra limitarsi ad azioni a effetto ma a bassa intensità.

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