Diocesi
“Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”
“Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente”: Queste parole di Maria che risuonano nella festa della sua Assunzione al cielo, per me sono profondamente vere e significative. Poco meno di un anno fa, il Vescovo mi chiedeva di assumere il servizio di Cappellano presso la Casa Circondariale di Livorno “Le Sughere”, un servizio che mai avevo pensato di poter fare, un impegno che arrivava dopo aver fatto il parroco per 24 anni, 6 a san Pio X e 18 a Castiglioncello, un servizio che si è rivelato, per me, un dono meraviglioso e una riscoperta bellissima.
Dopo quasi un anno da quando sono “entrato in galera”, sono qui a dirvi che “grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente”, mi ha buttato in un mondo a me sconosciuto, un’incognita al 100 per 100, non avevo la più pallida idea di cosa fosse un carcere né tantomeno del servizio del cappellano, eppure, in questo mondo nuovo e terribile, perché il carcere è un posto brutto, difficile, doloroso, pieno di contraddizioni e di fatica, ma il carcere è anche una realtà piena di meraviglie, in questo mondo nuovo e terribile mi ha fatto riscoprire alcuni elementi essenziali della vita cristiana che magari erano stati sepolti da tante cose importanti e urgenti ma non essenziali. In carcere ho ritrovato le cose essenziali dell’esperienza di Gesù e per questo “grandi cose ha fatto per me”, perché mi ha riportato a ciò che conta veramente.
Ma cos’è che conta davvero?
“Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa e entrò nella casa di Elisabetta”. In questi mesi di carcere ho riscoperto che la vita cristiana non è un fatto di organizzazione, non è un fatto nemmeno di devozione, ma è un fatto di relazione.
Maria, dopo l’annuncio dell’angelo, non organizza la nascita del bambino, non si mette a fare gesti liturgici o religiosi, non fa un pellegrinaggio a Gerusalemme per andare al Tempio, Maria cerca Elisabetta, cerca la relazione, ha bisogno della relazione per capire il disegno di Dio per lei, ha bisogno di questa sorella che l’angelo le aveva indicato come il segno che niente è impossibile a Dio e quindi va da lei a vedere se e come niente è davvero impossibile a Dio.
In questo anno in carcere ho ritrovato il valore della relazione come elemento essenziale della vita cristiana. La relazione con i detenuti: ascoltarli, cercarli, chiamarli per nome, stringere loro la mano.
Il cappellano in carcere non ha nessun ruolo e nessun potere, non deve e non può organizzare niente, fondamentalmente è una presenza inutile, eppure, in questa inutilità, ho scoperto, anzi riscoperto, quanto sia fondamentale la relazione, quanto sia vitale e umanizzante.
La relazione fa sentire queste persone, persone, non reati, non numeri, ma nomi.
Quante storie, quante richieste, quanto bisogno di essere riconosciuti come persone e, per questo, ti cercano e, di questa ricerca, io sono sempre il primo a stupirmi. Eppure, è così, quando ti viene tolto tutto, anche se per colpa tua, ciò che ti fa sentire ancora persona è un’altra persona che ti ascolta e ti chiama per nome.
La vita cristiana, l’esperienza di Cristo personale e comunitaria, ha bisogno di organizzazione, certo, ha bisogno anche di devozione, sicuramente, ma se queste realtà non vengono dopo e non sono alimentate dalla relazione, restano aride e, a volte, anche pericolose perché fini a sé stesse.
In questi mesi di carcere un altro valore si ripresentato a me in maniera evidente e meravigliosa, qualcosa che sapevo mi appartenesse fin dall’inizio della mia vocazione cristiana, ma che poi ho rischiato di travisare e vivere in modo scorretto.
La relazione con i detenuti, con queste persone sbagliate e colpevoli, messe ai margini della società perché considerate pericolose e dannose, la relazione con questi scarti della società, che non sono vittime se non di se stessi, non sono da giustificare, ma che sono e restano persone che chiedono una possibilità, che chiedono di essere riconosciute, la relazione con loro mi ha ricordato e fatto ritrovare quanto sia salvifica, portatrice di vita e di salvezza profonda, la relazione preferenziale con gli ultimi, con i poveri, con gli emarginati.
In questi mesi mi sono ricordato dei testi che ho consumato negli anni della mia formazione, testi di don Tonino Bello che sono una meravigliosa poesia su quanto i poveri siano soggetto di evangelizzazione, e sono loro che ci evangelizzano, non il contrario.
Ho ritrovato vere le parole della Chiesa Italiana degli anni ’80, su cui si è formato il mio essere prete, sulla condivisione con i poveri e come l’evangelizzazione non può prescindere dalla condivisione con i poveri, ho ritrovato quella espressione dei documenti CEI di allora così bella: “scelta preferenziale degli ultimi”.
Mi sono tornate in mente le parole di don Benzi, quanto volte me lo ha detto: i poveri ci evangelizzano, i poveri ci salveranno, i poveri sono i nostri maestri di fede.
La predicazione di papa Francesco: dai l’elemosina, guardalo negli occhi, toccagli la mano, chiamalo per nome, costruisci una relazione con il povero.
Quanti studi ho fatto sulla Bibbia per scoprire che, nella Parola di Dio, non ci si perde a filosofeggiare su chi è il vero povero. Nella Bibbia, il povero è l’ultimo, l’emarginato, chi non ha e chi non conta e la Parola di Dio, dalla predicazione dei profeti a quella di Gesù, ci ricorda che, con loro, Dio costruisce il suo Regno.
Ho ritrovato una dimensione fondamentale della vita cristiana, ho ritrovato quanto sia meraviglioso e meravigliante coltivare la relazione con gli ultimi, con i poveri, con i piccoli, con gli scarti e gli emarginati.
Non è sociologismo, è vangelo, il vangelo di Gesù.
In questi mesi, in mezzo a questi avanzi di galera, ho ritrovato quanto sia meraviglioso, bello, quanto profumi di vangelo la relazione con i poveri, con gli ultimi.
Quando sento delle resistenze all’accoglienza dei piccoli, degli ultimi, quando sento che la chiesa non deve fare assistenza ai poveri, mi dispiace, perché, chi dice così, non ha idea di che meraviglia si stia perdendo!
Non si tratta di far sentire in colpa nessuno, si tratta invece di non farsi mancare una cosa così bella, un profumo così evangelico.
Non è facile, non è una cosa da ingenui. I piccoli, i poveri sono persone con pregi e difetti, spesso sono violenti e prepotenti, duri come le pine verdi, ingrati e anche molto di più, la relazione preferenziale con gli ultimi non è bella perché loro siano particolarmente belli, no, magari qualcuno è anche così, ma non è questo il punto, il punto è che i poveri, gli ultimi ci fanno profumare di vangelo e profumano loro stessi di vangelo, non si tratta di evangelizzarli, ma di farci evangelizzare da loro, ed è bellissimo farsi insegnare da loro il vangelo, anche se non ne hanno la più pallida idea!
La relazione con loro, lo stare con loro, a volte cercando di aiutarli, il più delle volte semplicemente stando accanto a loro, ascoltando le loro lacrime e le loro speranze, è meraviglioso, profuma di vangelo, senti davvero la presenza reale di Cristo in loro, anche se loro non lo sanno e, magari, lo nascondono anche bene, ma c’è.
Non saprei come dirlo, è una bellezza enorme che scalda il cuore, non fatevela portare via, non rinunciate a tanta grazia.
Quante volte esco dal carcere con il cuore gonfio di emozione solo perché ho sentito la grazia di aver condiviso del tempo con persone sbagliate eppure ricche di umanità.
La relazione con i poveri ci aiuta a pregare, ci aiuta a leggere la bibbia, ci aiuta a crescere come comunità, relativizza tante cose che a noi sembrano questione di vita o di morte.
Ve lo dico con il cuore in mano, davvero, non abbiate paura dei poveri, dei piccoli, degli ultimi, rischiate di perdervi tanta grazia.
Non sarà facile, non è semplice ma è meraviglioso, il vangelo con loro ha un sapore tutto particolare, è bellissimo, non fatevi scappare questa bellezza…
Poi, il come, ciascuno faccia come può, non dico che dovete venire tutti in carcere, anzi, ma ciascuno trovi il suo modo di stare con i piccoli, con i poveri, non soltanto di fare qualcosa per loro, ma di stare con loro.
“Maria rimase con lei circa tre mesi”
Don Oreste diceva sempre di non fare le cose per Dio, chi fa le cose per Dio, diceva, è un facchino, chi fa le cose con Dio è un figlio. Lo stesso vale con gli ultimi, i piccoli. Certo, c’è da fare per loro, ma, prima, c’è da stare con loro, altrimenti si diventa assistenzialisti, fornitori di prestazioni, si tratta invece di stare con i piccoli, condividere con loro le loro fatiche e le loro speranze, cercando insieme di affrontare la vita, stare con loro ci rende vangelo vivo, ci fa profumare di vangelo e esultare di gioia, come Giovanni nel grembo di Elisabetta e come Maria che esulta e benedice il Padre perché fa grandi cose per lei e in lei.