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Fare morire non è un «dovere» delle Asl
Un nuovo caso di cronaca accende la discussione sul suicidio assistito: un paziente che, pur ritenendo di incarnare tutte le condizioni indicate dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, si è visto negare dalla propria Asl la morte a richiesta. Parla di «gravissima violazione dei rapporti tra istituzioni» Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione radicale Luca Coscioni, che proprio ieri, in un tweet, ha annunciato l’impugnazione da parte del pm di Massa della sentenza assolutoria anche per l’accusa di istigazione al suicidio di Davide Trentini. La presidente Filomena Gallo sul caso Asl dice che «stiamo preparando un’azione giudiziaria contro questo diniego di gravità assoluta e continuiamo a ribadire l’urgenza di una legge che regolamenti le scelte di fine vita a garanzia dei diritti fondamentali».
Ma è proprio questo il punto: in assenza di una specifica norma, ha fatto bene l’Asl a non erogare il suicidio assistito. La questione è di fondamentale importanza. La Consulta ha ritenuto di sancire l’illegittimità costituzionale del reato di aiuto nel suicidio in un ristrettissimo numero di casi. Ciò significa che chi aiuta a morire una persona «affetta da una patologia irreversibile – così recita il provvedimento – e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli » non possa soggiacere alle pene previste dall’articolo 580 del Codice penale, che intendeva punire sempre e comunque chiunque aiutasse un altro a morire. Ma trasformare automaticamente la non punibilità in un dovere pubblico di coniare la relativa procedura sembra un salto logico difficilmente giustificabile. La Corte Costituzionale auspica che il Servizio sanitario nazionale arrivi a farlo. Ma sono gli stessi giudici costituzionali ad averlo sottolineato: lo può fare una legge del Parlamento. E non è un caso se il Parlamento non sia ancora riuscito a vararne una: di eutanasia (o suicidio assistito, come dir si voglia) alcune parti politiche parlano da decenni. Ma mai, prima della sentenza della Consulta, avevano trovato la convergenza anche solo per calendarizzarne la discussione. «Perché dunque – si chiede Domenico Airoma, procuratore aggiunto di Napoli e vicepresidente del Centro studi Livatino – minacciare di ricorrere contro la decisione di un’Azienda sanitaria locale che si è limitata a ribadire quel che ha scritto la Corte Costituzionale, negando la morte a richiesta? Perché si confida, e non senza ragione, visti i precedenti, in un giudice che si sostituisca al legislatore».