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Esce in Italia il libro
Tutto inizia con una domanda, ne I poveri di William T. Vollmann. Dalle baracche di lamiera in Thailandia alle case di fango in Afghanistan, alle capanne colombiane su colline d’immondizia, Vollmann chiede ai protagonisti del libro: “Perché sei povero?”. A volte non ottiene risposta. A volte sente rispondersi che è un destino. Natalia addita una sventura originaria: una zecca che la punse da neonata, in un paese siberiano dove non c’erano ambulanze. Sunee, buddhista, crede di essere povera per gli sbagli della vita precedente. Per altri è mancanza di documenti, istruzione o capacità di adattarsi. Colpa propria, colpa d’altri, colpa di nessuno. È un insieme di reportage sulla vita degli ultimi e sull’oscurità della disuguaglianza. L’inchiesta tutt’altro che lineare ma coerente di uno scrittore imprendibile nelle definizioni, basata su incontri avvenuti in giro per il mondo tra il 1995 e il 2005, quindi prima del disastro globale innescato dalla crisi dei mutui subprime. Ed è significativo che la prima edizione italiana di Poor People (la traduzione è di Cristiana Mennella) esca, a distanza di tredici anni dall’originale, in questo momento storico – a ridosso del cupo orizzonte economico che già si scorge. Se il futuro prossimo vedrà schizzare i numeri della povertà in Italia (già inquietanti: secondo l’Istat, nel 2019 quasi 4,6 milioni di persone in povertà assoluta e 8,8 milioni in povertà relativa) allora un libro come questo offre gli strumenti per ragionare su un tema delicato ma presente, invece di trattarlo come un tabù. Cosa definisce un povero? È un’altra domanda che percorre il libro. Gli elementi soggettivi e oggettivi si mescolano, s’ingarbugliano, impediscono forse di trovare una soluzione universale. Perché a intervenire sono la cultura e la condizione economica, i bisogni propri e gli standard della società. Nel dizionario in apertura, Vollmann individua comunque un denominatore comune: il povero è «l’infelice nella propria normalità».
Proseguendo sul piano teorico, osserva che i poveri sono tollerati quando costituiscono una riserva di qualcosa (per esempio manodopera) ma sono indesiderabili se contendono risorse comuni. Nel XXI secolo, riconoscere un essere umano come “povero” sembra imbarazzante, offensivo. Certo è facile fingersi presbiti davanti alla sofferenza che abbiamo sotto il naso. Raccontarci che viviamo in un’uguaglianza non solo formale. Facile, anche perché i poveri vivono tra di loro, segregati o comunque nascosti nelle pieghe del territorio – lontano dagli occhi. Per questo Vollmann punta fortemente sull’aspetto visivo: scrive che le sue sono istantanee e in coda inserisce una sezione d’oltre cento ritratti degli intervistati. L’obiettivo è mostrare, sostiene, senza la pretesa di cambiare le cose. Mette le mani avanti eppure non nasconde di voler comprendere. I suoi protagonisti hanno lavori umili o vivono di carità. Come la professoressa afghana diventata mendicante, che porta con sé il certificato d’abilitazione all’insegnamento e riceve l’elemosina da un suo ex alunno. Tutti raccontano storie che d’istinto vorremmo inverosimili o false, invece spesso sono solo impressionanti. A parlare sono donne delle pulizie thailandesi, musicisti ambulanti messicani, ex operai mandati a bonificare Chernobyl, ex impiegati giapponesi che vivono in scatole di tela cerata sotto i ponti.
Sono famiglie cinesi cacciate da case di loro proprietà, perché vanno demolite per far posto a strade più larghe. Sono uomini e donne che delinquono per ripagare debiti.
Sono persone, spesso, che sfuggono ai codici di comportamento: imprevedibili, perché addolorate o alterate. Infatti è una raccolta piena di esclamazioni, gesti improvvisi. E appunto di domande, perché Vollmann non copre col cinismo tutta la sua curiosità.
Si chiede cosa possano fare loro – i poveri – per cambiare le cose. Lo preoccupa che una caratteristica della miseria sia «l’accettazione della sconfitta». In molti non sono rabbiosi ma si abbandonano a un torpore che li protegge. A quasi nessuno un miglioramento delle condizioni sembra possibile. Contro questa resa Vollmann invita, con Seneca, ad «attutire con la propria fermezza l’urto della cattiva fortuna». E chiede, stavolta a sé stesso: come essere d’aiuto? Il dispiacere non serve a nessuno, il senso di colpa neanche. La compassione è necessaria, e fa rima con la comprensione. Alla sua bambina, Vollmann fa salutare i poveri che incontrano perché cresca senza disprezzarli né averne paura.