Civil War

Stati Uniti, focolai di guerra civile e divisioni tra Stati divampano ovunque. A New York la nota fotoreporter di guerra Lee, insieme al collega Joel e al veterano del “New York Times” Sammy decidono di spostarsi verso Washington a caccia di notizie e soprattutto per raccontare la presa della Casa Bianca da parte delle Forze Occidentali (Western Forces), un’alleanza tra Stati e forze armate contro il governo federale. Ormai non è più riconosciuto il ruolo del presidente. Con i giornalisti si aggiunge la giovane aspirante fotografa Jessie. Il gruppo si muove lungo il territorio, imbattendosi in città fantasma, assalti armati, guerriglie a briglia sciolta e fosse comuni. Un mondo che ha perso le sue coordinate democratiche, la sua umanità. E a raccontare il tutto troviamo l’occhio esperto di Lee, i suoi scatti che hanno fatto storia, ma anche lo sguardo “innocente” e affamato di vita di Jessie…

Valutazione Pastorale

Il thriller di denuncia sociale “Civil War” scritto e diretto dal britannico Alex Garland (“Ex Machina”, suo è anche il copione di “28 giorni dopo”) ha destato attenzione, tra disagio, condivisione e dibattito. L’opera mette a tema il possibile sbandamento della società – il racconto è focalizzato sugli Stati Uniti, ma è applicabile a qualsiasi democrazia contemporanea –, preda di laceranti divisioni e violente contrapposizioni. Un mondo capovolto, senza più regole e tenuta sociale. Prospettiva del racconto lo sguardo di tre fotoreporter, l’occhio della camera, che rappresenta la prospettiva giornalistica e lo sguardo spettatoriale. Garland compone una suggestione dura, disturbante e profondamente realistica: il pericolo di scivolamento nel buio, nella violenza, di cui la Storia ci dà continuamente conto. Un’opera originale e al contempo debitrice di una riflessione cinematografica (ma non solo) sempre più ricorrente: pensiamo al duro e bellissimo “Nuevo orden” (2020) di Michel Franco, Leone d’argento a Venezia77, ma anche alle acute e provocatorie serie Tv “The Handmaid’s Tale” (2017-, Tim Vision e Prime Video) o “The Last of Us” (2023-, Sky e Now). Uno storytelling distopico che sembra sempre meno fantastico e con ricorrenti punti di tangenza con il nostro oggi fragile e incerto. “Se dimentichi la storia – ha dichiarato Garland – sei destinato a ripeterla.

È importante capire che nessuno è immune. Nessun Paese è immune da questo. Perché non ha niente a che fare con i Paesi, ha a che fare con le persone”. Il regista chiarisce da subito il perimetro narrativo del suo film: raccontare il rischio di implosione della democrazia, un rischio che più che fantastico corre veloce sui precedenti allarmanti della Storia. Sullo sfondo non c’è solo il collasso della Repubblica di Weimar a inizio XX secolo, ma anche gli avvenimenti di “ieri”, l’assalto tumultuoso nel gennaio 2021 a Capitol Hill, all’indomani del cambio di presidenza alla Casa Bianca. “Civil War” si muove su due direttrici. Anzitutto sulle prime sembra che a conquistare il centro del racconto sia proprio lo smottamento della Nazione, con l’accurato storytelling di brutalità umane, efferatezze e buio sociale. In verità, appena si entra in partita con il film subito l’attenzione, il fuoco narrativo, si sposta sui protagonisti, i fotoreporter, chiamati ad addentrarsi nella tempesta e mostrarla, declinarla, al grande pubblico. “Civil War” approfondisce il ruolo e lo sguardo del giornalista-fotografo che sa spingersi a caccia della verità nelle zone d’ombra e nei territori più impervi dell’umano pur di trovare la notizia, lo scatto più incisivo e rivelatore. Garland si posiziona pertanto sulla linea di confine tra valore della professione, deontologia ed ebrezza da scoop che rischia però di avvitarsi in una vertigine di cinismo e mercificazione. Ci si domanda quale prezzo abbia la notizia, fino a che punto ci si possa spingere.

Se la fotografa Lee lungo il viaggio decide di cancellare alcuni scatti fatti a un collega morente, evocando rispetto e pudore, dall’altro lato la giovane Jessie, mossa da ardore e desiderio di riscatto, arriva a cogliere – in più di un’occasione – la morte innocente in diretta… Punto di forza dell’opera è di certo la regia, potente e intensa. L’autore britannico ha saputo cogliere un tema di stringente attualità e proporlo in chiave efficace, problematica e assolutamente sfidante. Ci ha messo davanti a uno specchio più o meno deformante, ricordandoci che la salute della democrazia va custodita altrimenti con facilità si può (ri)scivolare nello smarrimento. La sua regia è vigorosa, serrata, livida: scuote e disturba lo sguardo dello spettatore, spingendolo a provare tanto empatia quanto allarme. E nel far questo non risparmia una reiterata visualizzazione della violenza, asciutta e schietta: con la guerra non si scherza, non c’è edulcorazione. Altro elemento di pregio sono le interpretazioni del cast tutto, a partire dalla capofila, l’ottima Kirsten Dunst, enfant prodige del cinema “a stelle e strisce” che brilla per gli incisivi “Marie Antoinette” (2006), “Melancholia” (2011) e “Il potere del cane” (2021). Insieme a lei, la stella in ascesa Cailee Spaeny, Coppa Volpi a Venezia80 per “Priscilla”, e il valido Wagner Moura (la serie “Narcos” e “The Gray Man”, 2022). Dall’altro lato, a risultare più tiepido, sfocato, è il copione, la struttura narrativa. Se funziona la parabola del viaggio dei giornalisti, questo loro addentrarsi nei tornanti del male e della disperazione umana, si sente la mancanza di un approfondimento, di un ancoraggio sulle cause scatenanti del conflitto e sulle fratture politico-sociali. All’inizio del film si viene catapultati sulla scena di uno scontro già divampato, che non permette però di cogliere a fondo la problematicità e drammaticità della situazione. Mancano le radici del problema. Detto questo, “Civil War” è un’opera acuta, provocatoria, da valorizzare: è un film denuncia, di impegno civile, dalle sfumature da thriller distopico, che direziona l’occhio della camera su un concreto pericolo per la democrazia. Complesso, problematico, per dibattiti.