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Bimbi tolti alle famiglie
Dopo il caso Reggio Emilia l’obiettivo, condiviso da tutti gli esperti, è chiaro: restituire dignità alla giustizia per i bambini. E, per essere dignitosa, la giustizia dev’essere tempestiva. Se arriva in ritardo – come troppo spesso avviene oggi – non è più tale, proprio perché, per un bambino sottratto ai genitori, ogni giorno in più può essere determinante. Si può rimediare? Sì, le proposte non mancano. Ma sulle modalità per attuarle il dibattito è aperto.
Mentre vanno definendosi i particolari dell’inchiesta che per il momento ha portato a 6 arresti e 17 indagati tra psicoterapeuti, assistenti sociali e amministratori pubblici, vanno anche emergendo i tanti collegamenti con quanto accaduto oltre vent’anni fa a Finale Emilia e ci si chiede come sia possibile il ripetersi nello stesso luogo e con molti degli stessi protagonisti negativi di allora, vergognosi episodi in fotocopia. Ma quanto capitato in Emilia, non bisogna dimenticarlo, succede anche in tante altre parti d’Italia, con casi di allontanamento coatto di bambini e ragazzi dai contorni spesso problematici. E questi allontanamenti – che spesso diventano incursioni delle forze dell’ordine con scene drammatiche di disperazione e di panico – presentano spesso motivazioni tutt’altro che trasparenti.
Ma quanti sono in Italia i bambini allontanati da casa per disposizione dei magistrati minorili? Non lo sappiamo, visto che non esiste un registro nazionale. Di conseguenza non sappiamo neppure quanti sono quelli che rientrano in famiglia. Sui numeri del resto la confusione è totale. Sappiamo che complessivamente nel nostro Paese vivono fuori dalle famiglie d’origine circa 35mila minori, di cui 21mila nelle varie comunità e 14mila in affido familiare. Ma il conteggio è solo una stima che tiene conto dei dati che arrivano da tre diversi enti (procure minorili, Garante per l’infanzia, ministero del Lavoro e delle politiche sociali). E sono dati diversi.
Rosanna Fanelli, avvocato, portavoce dell’associazione 15 maggio e del gruppo nascente “Toghe pulite per i bambini” che raggruppa anche decine di genitori separati vittime dell’alienazione parentale, ha le idee chiare: «La giustizia minorile non funziona perché il ruolo del magistrato viene “esternalizzato” a figure estranee e al processo, cioè ai consulenti, agli psicologi, agli altri esperti». La maggior parte dei terapeuti per i bambini è naturalmente affidabile e collaudata, ma come si fa a saperlo? «Impossibile – riprende Fanelli – visto che non esiste un albo dei consulenti per i bambini. Così spesso vengono nominati esperti che hanno competenze come criminologi o psichiatri sociali. Ma questo è assurdo. Per valutare le conseguenze di un incidente stradale si chiama un traumatologo, non un oculista».
Poi esiste il problema dei conflitti di interesse. Secondo il diritto minorile, il giudizio su un caso viene emesso da una camera di consiglio composta da un presidente e da un giudice relatore (togati) oltre a due giudici onorari con altre competenze (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri). Ora, è vero che c’è una disposizione del Csm che vieta a un giudice onorario incarichi, anche a titolo gratuito, all’interno di strutture d’accoglienza e comunità educative. Ma capita talvolta – ed è capitato – che un giudice onorario svolga poi, in un altro caso, anche funzioni di “ctu” (consulenza tecnica d’ufficio). La “ctu” è la perizia che il giudice (togato) ordina, per esempio, allo scopo di valutare l’equilibrio psicologico di un minore o di un genitore. «Ma questo – riprende l’esperta – è inaccettabile. Giudice onorario e “ctu” dovrebbero soggiacere alle stesse condizioni di incompatibilità e mantenere una posizione di terzietà». Non solo, proprio per garantire la massima trasparenza delle funzioni, i terapeuti incaricati di effettuare una consulenza su un minore, dovrebbero essere obbligati da una legge specifica a disporre di un’assicurazione professionale.
«Questo perché – conclude Fanelli – l’assicurazione offre alle famiglie una tutela sul piano risarcitorio e garantisce una sorta di “selezione naturale”. Dopo due o tre perizie contestate con relativo risarcimento versato, quel terapeuta non troverà più alcuna assicurazione disponibile a coprire il danno».
Patrizia Micai, avvocato, da vent’anni impegnata sul fronte della tutela dei minori – ha assistito proprio le famiglie coinvolte nel caso dei presunti pedofili della Bassa Modenese – sottolinea l’opportunità di rivedere gli interventi degli assistenti sociali. In particolare si concentra sulle modalità in cui vengono realizzate le relazioni che dovranno poi essere utilizzate dai tribunali per avviare il procedimento giudiziario. «L’interrogatorio dei minori – spiega – dovrebbe essere videoregistrato per garantire la massima trasparenza. Purtroppo non esistono disposizioni precise su come dev’essere realizzata una relazione, a parte la Carta di Noto, che comunque non è ritenuto vincolante».
Altra grave lacuna è la mancanza del diritto al contraddittorio paritetico. «Per i minori non esiste il diritto alla difesa, peraltro sancito dall’articolo 111 della Costituzione – osserva ancora Micai – eppure per questa violazione continua l’Italia è stata più volte condannata dagli organismi europei. Un buco normativo che, anche alla luce dell’inchiesta di questi giorni, non è più tollerabile». Così, le battaglie legali che si accendono dopo l’allontanamento di un minore dalla sua famiglia si presentano subito impari, perché di fronte alla relazione di un assistente sociale – che è considerato “pubblico ufficiale” – i genitori partono con un handicap pressoché incolmabile.
Ma le legge tace su tanti altri punti. Come devono essere nominati i periti? Con quali criteri sceglie il giudice? La nomina è fiduciaria, quindi ognuno si organizza come meglio crede e questo lascia sempre un margine di dubbio. Ecco perché anche qui serve una modifica normativa, con elenchi convalidati e una commissione, argomenta l’esperta, che va ad accertare preparazione e curricula.
Altro capitolo spinoso quello dei costi. Secondo Micai sarebbe anche necessario uniformare ciò che le amministrazioni pubbliche spendono per l’ospitalità dei minori nelle comunità, cifra che oggi varia da regione a regione. Con quali criteri si può puntare il dito contro il presunto “business dei minori” oppure, al contrario, affermare che le comunità sopravvivono appena, se non esistono dati condivisi a livello nazionale? Tutto complesso ma drammaticamente urgente. Ma se non si interviene, domani potremmo inutilmente stupirci e indignarci per un nuovo caso Reggio Emilia.