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A proposito della canzone di Ghali
Cosa serve, per essere un italiano vero? A Toto Cotugno, che se ne è andato quest’anno dopo una lunga malattia, bastava la musica: «Lasciatemi cantare con la chitarra in mano». Quell’inno nazional-popolare ha scritto una pagina della canzone italiana negli anni Ottanta, per poi finire con l’infiammare i palchi dell’Europa dell’Est molto più dei nostri. È passato di moda d’altronde col tempo, nei brani del Festival di Sanremo e non solo, l’orgoglio delle proprie radici, lasciando spazio alle grandi e sacrosante battaglie per la parità di genere, contro la violenza, la mafia, la guerra, le discriminazioni. Italiani siamo, non è la cosa più scontata del mondo? No, non lo è. Un milione di ragazzi nati in Italia da genitori immigrati o arrivati qui da piccoli, che sono cresciuti e studiano nelle nostre scuole, italiani non sono. Perché la chitarra non basta, purtroppo. Servirebbe una legge giusta, capace di andare oltre il diritto di sangue e la cosiddetta “naturalizzazione”, ma quella legge (naufragata in Parlamento l’ultima volta nel 2017) non interessa a nessuno, o quasi. Non ai governi del passato, incapaci di trovare una convergenza su quelli che di volta in volta sono stati chiamati “ius soli” o “ius culturae”. Non a questo governo, almeno per ora, che di legalità e sicurezza ha fatto la propria bandiera, in parte a spese dell’accoglienza e dell’integrazione. Quella legge siamo tornati a invocarla dalle nostre pagine, appena una settimana fa, rilanciando una campagna intrapresa proprio nel 2017 da questo giornale e dando voce alle proposte emerse in un forum organizzato nella redazione milanese di “Avvenire” con rappresentanti di rilievo delle istituzioni, della società civile e della Chiesa.
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