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Chi deve nascere è persona
Il feto inizia a essere considerato persona dall’«inizio del travaglio» e non già solo dal successivo momento del «distacco dall’utero materno ». Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 27539/2019, depositata giovedì sera, confermando l’orientamento inaugurato nel 2008. Se dunque un sanitario provoca colposamente la morte di un bimbo nelle fasi immediatamente precedenti la nascita risponderà di omicidio e non di feticidio (aborto), al di fuori delle condizioni previste dalla legge 194.
La Corte, per motivare la sua decisione, precisa innanzitutto che «i reati di omicidio e di infanticidio-feticidio tutelano lo stesso bene giuridico, e cioè la vita dell’uomo nella sua interezza». Poi entra nel dettaglio, affermando che «il nascente vivo non è più feto, né in senso biologico, né in senso giuridico, bensì persona». E sulla premessa che «la tutela della vita non può soffrire lacune » (un «principio irrinunciabile»), chiarisce che «l’illecito commesso sarà un omicidio o un procurato aborto a seconda che il nascente abbia goduto di vita autonoma o meno». Eventualità, la prima, esistente appunto dal momento del travaglio.
A provocare questa pronuncia era stato il ricorso di un’ostetrica di Salerno contro la condanna in primo e in secondo grado per aver colposamente provocato la morte di un bimbo durante il travaglio. Tra le sue tesi difensive nel ricorso in Cassazione vi era pure il sospetto d’illegittimità costituzionale sull’attuale formulazione dell’articolo che punisce l’omicidio colposo: «In ragione delle più recenti evoluzioni culturali e giurisprudenziali in tema di status e tutela del prodotto del concepimento – così i giudici riassumono in sentenza la sua posizione, prendendo poi le distanze – l’articolo 589 del Codice penale viola i principi di tassatività, frammentarietà e sufficiente determinatezzadella fattispecie penale, perché non fornisce un’accezione univoca del concetto di’persona’, eventualmente escludendo o includendo anche il feto umano». Nel respingere questa visione, i giudici rilevanocome «tale disciplina» rispecchi «un quadro normativo giurisprudenziale italiano e internazionale di totale ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e dal concepito si è poi estesa fino all’embrione». Tra le pronunce che hanno disegnato questo quadro, osserva ancora la Cassazione, ve n’è una pronunciata dalla Grande Camera – la composizione più autorevole – della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu): quella del 27 agosto 2015, che, dando torto alla ricorrente, ha affermato l’inesistenza di contrasti tra la Convenzione europea per i diritti dell’uomo e la legge 40 italiana laddove quest’ultima vieta l’uso di embrioni umani per la ricerca scientifica. Ma se, da un lato, la giurisprudenza non ha dubbi sulla natura di persona rivestita dal feto che sta per nascere, dall’altro ancora non è chiara la sua soggettività nella fase precedente, a partire dal concepimento. La legge 40, all’articolo 1, dichiara di assicurare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito», con ciò lasciando intendere l’esistenza in capo a quest’ultimo della dignità di persona. Lettura confermata dalla sentenza dell’altro giorno, per cui «il legislatore ha sostanzialmente riconosciuto anche al feto la qualità di uomo vero e proprio, giacchè la morte è l’opposto della vita».
Eppure, a certe condizioni, la legge 194 sull’aborto consente la soppressione dell’embrione, cosa decisamente contrastante con la sua natura umana. Ancora, con la sentenza 229 del 2015 la Corte costituzionale ha sì ritenuto l’embrione «non certamente riducibile a mero materiale biologico», e dunque non sopprimibile arbitrariamente, ma senza spingersi a chiarire definitivamente la sua natura. Di conseguenza, ancora oggi, resta oggetto di discussione quale sia il suo grado di ‘soggettività’. Almeno fino al travaglio.