Consulta, argini al suicidio assistito: prima le cure palliative

Il medico non è obbligato ad aiutare un paziente a togliersi la vita: solo non è punibile per il reato di aiuto nel suicidio, previsto dall’articolo 580 del Codice penale, se il malato versa in alcune specifiche condizioni. E attenzione: tra queste, vi è l’effettivo (previo) coinvolgimento del malato in un percorso di cure palliative. Piantando nella sentenza depositata nella tarda mattinata di venerdì 22 novembre questi precisi paletti, la Corte costituzionale ha innalzato gli argini entro i quali dovrà muoversi la nuova legge sul fine vita. Da oggi, dunque, sarà penalmente tollerato l’aiuto al suicidio esclusivamente se prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, che resti tuttavia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Precisa però la Consulta che «in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge […] il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire […] un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente». Diversamente, ed è sempre la Corte a metterlo nero su bianco, «si cadrebbe […] nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative». I giudici fissano poi altri due vincoli, già anticipati in precedenza dalla Corte: per procedere alla morte per atto medico deve prima essere assunto il parere del Comitato etico territorialmente competente, e l’atto deve avvenire in una struttura sanitaria pubblica. 

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