Diocesi
Mi parea udire in voce mista al dolce suono
Due anni or sono, o poco più, pubblicai sulle colonne de “La Settimana”un articolo intitolato “Te Deum: un inno senza tramonto”, che intendo ora riproporre ai lettori in una versione riveduta e un poco appena ampliata.
L’incipit latino così proclama: «Te Deum laudamus». Di qui, ossia dalle prime due parole, il nome con cui è noto questo celebre inno. Il canto di tale inno è oggi contemplato a conclusione dell’Ufficio delle Letture, nelle domeniche e nelle feste, eccezion fatta per la Quaresima. Già San Benedetto lo cita nella Regola quale parte dell’Ufficio notturno. È, invece, assai diffusa, sebbene abbastanza tardiva, la tradizione di intonare quest’inno nelle grandi occasioni di ringraziamento, quale per esempio la fine dell’anno civile, la più nota forse oggi a molti fedeli.
Veniamo ora alla sua forma compositiva. Ci troviamo dinanzi al testo di un inno – come già accennato – e in modo particolare a un inno composto in versi non metrici, similmente al più famoso “Gloria in excelsis Deo”. Tale forma permette, infatti, maggiore fluidità e plasticità nella composizione e la possibilità di passare agevolmente dai colori e dalle sfumature della glorificazione a quelli ben distinti della contemplazione, fino a concludere, poi, con quelli della supplica.
La struttura dell’inno, anch’essa consimile al “Gloria”, è composta di tre parti. Cito qui di seguito una sintetica ed efficace descrizione trascritta per l’occasione: «La prima è rivolta a Dio Padre, che viene confessato Signore dell’universo. Tutte le creature, quelle terrestri e quelle angeliche, proclamano la gloria di Dio tre volte santo; ma è soprattutto nella testimonianza degli Apostoli, nella voce dei profeti e delle schiere dei martiri che risuona la fede orante della Santa Chiesa. La seconda parte è rivolta a Cristo, Figlio Eterno del Padre. Nella traduzione italiana non si percepisce, purtroppo, la forza con cui è espresso il paradosso dell’incarnazione: “Tu, per assumere l’uomo da liberare, non hai aborrito l’utero della Vergine”. Così il realismo del mistero pasquale: “Tu, spezzato il pungiglione della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli”. La terza strofa, come tutte le antiche preghiere di benedizione, contiene una supplica. Nel “Te Deum” questa parte è ispirata ai salmi: invoca la salvezza eterna, una vita senza peccato, la misericordia finale. Il tono cambia radicalmente in questa strofa: la lode diventa implorazione».
Il “Te Deum” risulta, dunque, una composizione stratificata, la cui ultima parte sembra esser stata aggiunta alla fine del V secolo. Le due parti che la precedono, la prima dedicata alla SS. Trinità e la seconda a Cristo, sembrano poter vantare, invece, origini antichissime. Alcuni autori, infatti, attribuiscono tale originario testo a San Cipriano (+258), altri invece a San Niceta di Remesiana (+414), altri ancora, infine, in modo più leggendario a una collaborazione a quattro mani fra Sant’Ambrogio e Sant’Agostino. Una leggendaria tradizione, addirittura, in modo assai suggestivo, pone sulle labbra di questi due santi dottori, in occasione del battesimo di Sant’Agostino, il canto estemporaneo a voci alterne del celebre inno.
Dalle umili e celebri melodie gregoriane – composte nel silenzio dei chiostri monastici – ai più grandi capolavori della storia della musica, molti autori nel corso dei secoli si sono cimentati con il testo del “Te Deum”. Solo per citarne alcuni tra i più memorabili, si ricordano autori come Lully, Purcell, Händel, Charpentier, Mozart, Verdi, Bruckner, Dvorák.
Persino Dante Alighieri, nella Divina Commedia, fa divenir poesia il celebre inno. Giunto, infatti, ormai oltre la soglia della porta del Purgatorio, Dante sembra come udire in lontananza il canto del “Te Deum” – forse intonato dalle anime del secondo regno. È allora, quindi, che egli proferisce tali ricercate parole: «Io mi rivolsi attento al primo tuono, | e “Te Deum laudamus” mi parea | udire in voce mista al dolce suono». (Pg 139-141).