Suggerimenti per la natalità

Entro il 2070 l’Italia perderà più o meno 11,5 milioni di abitanti. Nei prossimi 25 anni i giovani sotto i 35 caleranno di 4 milioni, le persone oltre i 65 saranno tra i 18 e i 20 milioni, la spesa per pensioni e sanità potrebbe salire al 25% del Pil. Il conto della crisi della natalità è qualcosa che raggela. Per comprendere come siamo finiti in un inverno demografico che sembra senza fine, e magari per provare ad essere «padroni del nostro destino», un esercizio utile può essere quello di ripercorrere le tappe che ci hanno condotto fin qui. È quello che i demografi Alessandro Rosina, dell’Università Cattolica di Milano, e Roberto Impicciatore, dell’Università di Bologna, propongono in “Storia demografica d’Italia”, volume appena pubblicato da Carocci.

Professor Rosina, se il futuro oggi preoccupa, rileggere le stagioni che dall’Unità d’Italia alla pandemia ci hanno condotti alla crisi della natalità, cosa porta a dire? Che lezioni se ne possono trarre?

La prima lezione è che siamo un paese diverso dagli altri, un paese portato a cercare un equilibrio e poi mantenerlo il più possibile, creando attorno un sistema stratificato di difese che resiste a oltranza, facendo fronte a tensioni e squilibri crescenti finché non interviene un evento perturbatore, come le pandemie e le guerre, o un’azione forzata, come l’impresa dei Mille, la marcia su Roma, Tangentopoli e le condizioni per entrare nell’Unione europea. Ma siamo anche un paese con una demografia che tende a spostarsi come un pendolo in modo accentuato verso gli estremi: dall’alta mortalità infantile dei primi decenni dell’Unità a diventare uno dei paesi con maggior longevità; dal baby boom degli anni Sessanta al crollo degli anni Ottanta e Novanta; dalle emigrazioni di massa a cavallo del XIX e XX secolo, alle immigrazioni a cavallo del XX e XXI secolo. La seconda lezione è che il paese di oggi è diverso dal passato per alcune condizioni. La demografia, con i profondi squilibri tra vecchie e nuove generazioni, ci sta facendo entrare in un terreno inesplorato. È come se la base del pendolo venisse progressivamente inclinata bloccandoci su una posizione che da scomoda rischia di diventare insostenibile.

A cosa possono essere attribuiti gli errori commessi?

C’è una combinazione tra un limite culturale e un limite di interpretazione del percorso di sviluppo del Paese. Il limite culturale riguarda il pensare ai figli come bene privato a carico dei genitori anziché bene collettivo su cui tutta la società ha convenienza ad investire in modo solido. Questo ha fatto sentire le famiglie italiane sole in un contesto in profondo mutamento. Nelle società moderne avanzate il costo dei figli aumenta, l’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro si complica, l’incertezza sui percorsi dei giovani-adulti ha bisogno di orientamento, sostegno e accompagnamento. La carenza di politiche familiari e per le nuove generazioni porta ad una riduzione del numero di figli e al prolungamento della loro dipendenza dai genitori. Questa carenza è stata favorita anche dall’altro limite, quello di pensare che il modello sociale di successo degli anni Cinquanta e Sessanta non andasse rinnovato ma semplicemente mantenuto, concentrando l’attenzione politica solo su come non far lievitare troppo la spesa sociale.

In passato dopo eventi traumatici, come le epidemie di peste o le guerre, l’Italia ha conosciuto momenti di ripartenza. La pandemia cosa può rappresentare?

La pandemia può diventare un punto di svolta solo se noi vogliamo che lo diventi, non avverrà automaticamente in modo fisiologico come nelle epoche passate. Il paradosso in cui l’Italia si trova è rappresentato dalla combinazione di rinunce individuali rispetto a scelte desiderate, da un lato, e di squilibri collettivi con crescenticosti sociali ed economici, dall’altro. Se saremo capaci di rimettere le persone nelle condizioni di realizzare positivamente le proprie scelte, daremo anche risposta agli squilibri collettivi; se invece lasceremo crescere glisquilibri si andranno sempre più a restringere le condizioni per favorire le scelte che danno dinamismo

e vitalità al paese. Paradossalmente, quindi, proprio l’aver lasciato ai margini giovani e donne ci consente ora di aver potenzialmente più spinta per alimentare una nuova fase di sviluppo. A patto però di mettere pienamente in campo le loro energie generative con strumenti adeguati.

La demografia è sempre destino? Quali misure e quale approccio dovremmo avere per far ripartire la natalità?

Le nascite italiane non si trovano solo su livelli molto bassi, ma sono anche posizionate su una scala mobile che le trascina ulteriormente in giù, a causa della struttura per età della nostra popolazione, sbilanciata a sfavore dei giovani, che è conseguenza della denatalità passata. Più il tempo passa, quindi, più diventa difficile invertire la curva negativa. Nemmeno consistenti flussi migratori sarebbero più in grado di controbilanciare tale tendenza. Questo significa che anche la politica deve cambiare approccio. Non possiamo più accontentarci ogni anno di mettere risorse nella legge di bilancio su alcune misure e vedere volta per volta l’effetto che fa. Bisogna porsi come obiettivo quota 500mila nascite e mettere tutto ciò che serve in modo mirato e integrato per raggiungere entro dieci anni tale risultato. Mancare tale obiettivo significa condannare le nascite ad una caduta continua che porta a scenari demografici insostenibili, come descritto nell’appendice del libro che lancia uno sguardo verso il futuro. Nel decennio scorso siamo stati i peggiori in Europa, ora dovremmo imporci di diventare l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni.

La riforma dell’Assegno unico ha aperto la stagione della consapevolezza circa l’emergenza demografica. Che pregi e che difetti ha questa misura? Cosa cambierebbe?

L’Auu rappresenta una svolta sul fronte delle politiche familiari in Italia. Con la sua introduzione si è realizzata un’importante semplificazione delle misure preesistenti che rendevano il sistema delle risorse messe a disposizione dallo Stato per le famiglie complicato e frammentato, ma anche iniquo e inefficiente. Uno dei principali punti deboli è la quota universale relativamente bassa: in Germania l’importo della parte universale è 4 volte superiore. Se paragonata poi alla spesa media mensile in Italia per figli a carico, la base universale è da 10 a 15 volte inferiore. L’esperienza dei vari paesi europei mostra che l’efficacia dei trasferimenti quanto a impatto sulla natalità è legata alla loro consistenza. È importante che l’assegno sia percepito come sostegno non simbolico ma rilevante dal ceto medio, la fascia demograficamente più rilevante e dunque più in grado di incidere sul totale delle nascite. Inoltre, il ceto medio è escluso delle misure di contrasto alla povertà, quindi il sostegno ai costi di un figlio arriva da assegni universali e con un importo che fornisca un aiuto effettivo rispetto alle spese sostenute.

La Germania che cita, grazie anche a nuove e recenti politiche familiari, è riuscita a frenare la denatalità e a invertire la tendenza…

Sì, per questo l’Auu, per essere uno strumento efficace in termini di politiche familiari, non solo dovrebbe vedere rafforzata l’effettiva «universalità» della misura, ma andrebbe affiancato da un potenziamento dei servizi alle famiglie, come è previsto nel Family Act, e che oggi sono ancora insufficienti e iniquamente accessibili. In particolare, per quanto riguarda i nidi, vanno ridotti i costi, tra i più elevati in Europa, e migliorata la qualità rispetto alla funzione socio-educativa, oltre ad essere resa più omogenea la diffusione sul territorio.