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Intesa con la Cei a servizio della comunità
Sarà una sorta di «facilitatore» e farà da raccordo – accorciando le distanze– tra il mondo della comunità parrocchiale e quello del Servizio sanitario nazionale, senza sostituirsi ad esso. È «l’infermiere di parrocchia», una figura prevista dall’accordo firmato ieri nella sede della Conferenza episcopale italiana da don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, e da Angelo Tanese, direttore generale dell’Azienda sanitaria locale Roma 1.
Per spiegare in concreto il progetto, di durata quinquennale e che ha richiesto un anno di lavoro, basta immaginare quegli anziani soli che rinunciano alle cure per difficoltà economiche o perché non sanno a chi rivolgersi, o ancora perché non hanno chi li possa accompagnare nelle strutture sanitarie. Grazie alla rete di solidarietà della parrocchia potranno invece essere messi in contatto con un infermiere della Asl per capire (e risolvere) i loro bisogni di salute e cura.
L’iniziativa, che ha come partner professionali la Federazione degli ordini infermieristici (Fnopi) e la Federazione delle aziende sanitarie (Fiaso), intende infatti sperimentare la presenza di un infermiere di comunità inviato dalla Asl nelle parrocchie. Così, dopo aver raccolto le esigenze dei singoli, un referente di pastorale della salute condividerà i dati con l’infermiere di parrocchia, che si incaricherà di attivare procedure e servizi necessari a soddisfarle. Un nuovo modello «aperto» di collaborazione, utilizzando il potenziale di conoscenza del territorio delle parrocchie, che per ora sarà attivato nella diocesi di Roma, Alba e Tricarico. Da settembre così le chiese locali stipuleranno convenzioni con le rispettive Asl per “scrivere” il modello di infermiere di parrocchia più adatto alle esigenze di quel territorio.
14 milioniIl numero dei cittadini italiani sopra i 65 anni (circa il 35% dei residenti)3,2 milioniGli “over 65” che rinunciano a curarsi per gli alti costi o la mancanza di servizi3%La percentuale di anziani che usufruisce dell’Adi (Assistenza domiciliare) delle Asl
Mentre a livello nazionale verrà costituita la Consulta nazionale per i servizi sanitari di prossimità e il gruppo di coordinamento tecnico del progetto. La rete di contatti e relazioni sociali sul territorio, tipica delle parrocchia, con i suoi agenti pastorali, perciò viene messa a disposizione del Servizio sanitario nazionale per far emergere le necessità della popolazione. È questo il messaggio di fondo del ragionamento di don Massimo Angelelli, che spiega la cornice nella quale si inserirà l’esperimento pilota nelle tre diocesi. «Le sacche di povertà sanitaria aumentano», premette, e «le parrocchie sono ancora in grado di intercettare i bisogni delle persone», in questo modo «riduciamo le distanze tra le persone e il sistema sanitario», cercando di combattere «la cultura dello scarto, avvicinando le fasce più marginali».
L’originalità sta proprio nel fatto che l’infermiere di parrocchia non offre servizi sanitari aggiuntivi o alternativi a quelli pubblici, non è dunque un “ambulatorio” di parrocchia e neppure uno sportello per reclami. Con questa collaborazione, aggiunge infatti Angelo Tanese della Asl Roma 1, «si rafforza il nostro sistema di protezione socio-sanitaria in una logica di prossimità». La novità, dice, è proprio «sperimentare un modello di integrazione in cui la figura professionale dell’infermiere acquista un ruolo fondamentale».
Tanti malati infatti «non hanno chi li orienta nella cura della salute, anche se diverse parrocchie offrono già una figura di sostegno, attraverso la Caritas», aggiunge monsignor Paolo Ricciardi, vescovo ausiliare per la diocesi di Roma e delegato per la pastorale della salute, aggiungendo che la diocesi «sta avviando un anno pastorale di ascolto del grido della città, delle esigenze di tante persone. Questo progetto si inserisce in questo solco». Ancor più profondo nelle aree interne come la diocesi di Tricarico e quella di Alba, i cui referenti del progetto, don Giuseppe Molfese e don Domenico Bertorello, hanno ipotizzato di sperimentare il progetto proprio nelle zone più disagiate come le alte Langhe in Piemonte.