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Troppa gente oggi non riesce più a dire elementari verità. Se le dicesse verrebbe messa ai margini, zittita, imbavagliata, bloccata dai profili social – deplatformed –, indicata al pubblico ludibrio, mobbizzata fino a perdere il lavoro. Vale in particolare per il lavoro intellettuale e per l’insegnamento nelle università: posso testimoniarlo. Ormai il numero di casi di docenti deplatformed è notevole. Se dici, per esempio, che il sesso esiste, che è una realtà biologica, che non ti viene semplicemente ‘assegnato alla nascita’: bene, sei fuori, perdi l’incarico, devi trovare un altro modo per campare. Vale anche in politica. Sull’ultimo numero di ‘Newsweek’, Maud Maron, madre di tre maschi e una femmina e candidata al consiglio comunale di New York, parla della scrittrice JK Rowling, autrice della saga di Harry Potter e ormai regina delle deplatformed per essersi ribellata alla neolingua ‘inclusiva’ che impone alle donne il neo-nome di ‘mestruatori’.
«Volevo aggiungere la mia voce a quelle che la supportano – scrive Maron –. Volevo twittare #IStandwithJKRowling (Sto con JK Rowling). Ma non l’ho fatto. Mi candido per il consiglio comunale di Lower Manhattan e non volevo rischiare di essere chiamata transfobica. Quindi ho scelto il silenzio… Ma ora, un anno dopo, sono arrivata a credere che i costi del rimanere in silenzio siano troppo alti per me e per tutti noi… Le persone vicine ti consigliano di stare in silenzio perché è la cosa migliore da fare. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie scrive: ‘A volte però il silenzio fa sì che una bugia inizi ad assumere il luccichio della verità’. Parlava di individui, ma la sua cautela vale anche per le nazioni. Il silenzio di così tanti americani di fronte a così tante bugie, specialmente su questioni come il genere e la razza, sta iniziando a conferire il luccichio di verità a queste bugie. Le persone stanno iniziando a credere a idee nocive, come l’idea che l’America sia una nazione irrimediabilmente razzista, o l’idea che il tuo sesso non sia una realtà biologica».
Il virus woke (significa: risveglio) è americano, con varianti locali. Qualche giorno fa la saggista americana Rebecca Solnit ha rifiutato di essere intervistata da me al Festivaletteratura di Mantova. L’evento era programmato da mesi, le domande – in tutta franchezza, buone domande – le aveva pretese 24 ore prima, ma dopo averle lette ha optato per un – noiosissimo – monologo. All’organizzazione del Festival ha detto che non avrebbe parlato con una «transfobica». Non c’era assolutamente nulla di transfobico nelle mie domande. Parlavo proprio d’altro. Questo è tremendamente woke. I ‘risvegliati’ parlano solo con altri ‘risvegliati’, e la prova del risveglio consiste fondamentalmente nell’adesione integrale ad almeno un paio di assiomi: i bianchi sono tutti fascisti oppres- sori, e anche chi crede che il sesso biologico sia reale è un fascista oppressore. Date un occhio alla serie tv ‘Them’, su PrimeVideo: una rappresentazione allegorica-horror da cui spurga un odio razziale inaudito. Le cose sono a questo punto in America?
Quanto all’altro assioma, quello su sesso e genere, Solnit dice che «non esiste una definizione univoca di cosa sia una donna… Non si tratta di avere l’utero o il seno o il ciclo o di partorire, perché le donne non sono un allevamento (e, scusate, non riesco a smettere di vantarmi della mia città: il primo uomo a partorire è stato a San Francisco)… esistono tante altre varianti» (da un editoriale su ‘The Guardian’). La sua concittadina Judith Butler è super-woke. È stata tra le prime a risvegliarsi e a dare una sveglia al mondo. Nel 1990 – giovane e brillante studiosa di Hegel e dei decostruzionisti francesi di giorno, frequentatrice di drag bar la notte – nel suo best seller ‘Gender Trou- ble’ spiegò un costrutto sociale non è solo il genere, ma anche il sesso biologico. In una recente intervista, sempre su ‘The Guardian’, Butler ha affermato che la categoria ‘donna’ va ridefinita e che se una donna pensa che il sesso sia reale è una fascista. E con le fasciste non si discute, non si parla: si chiama ‘no-debate’.
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