Codice rosso Livorno: in aumento le violenze in famiglia

Negli ultimi mesi nella provincia di Livorno si è registrato un incremento degli episodi di violenza in famiglia: dati che fanno riflettere e soprattutto interrogano sulle motivazioni che sono alla base di queste situazioni drammatiche. Livorno raccoglie il triste primato di essere tra le città italiane con più casi annoverati, ma c’è una possibile soluzione a queste problematiche? Si può in qualche modo intervenire a livello sociale per tutelare in primis le categorie più deboli? Ne abbiamo parlato con il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Livorno Massimo Mannucci; ecco le sue interessanti considerazioni.

I numeri dei procedimenti penali e dei processi celebrati per i reati facenti parte della categoria cosiddetta del “codice rosso”, tra i quali quelli intra familiari, sono ormai la maggioranza. Il fenomeno ha ormai le caratteristiche di una vera e propria emergenza che sollecita una risposta giudiziaria consapevole e informata.

Nel primo semestre di quest’anno a Livorno sono stati iscritti 316 nuovi procedimenti contro i 234 iscritti nel primo semestre dello scorso anno. L’incremento dà il senso della crescita esponenziale del fenomeno. La situazione livornese, al di là di una propensione alla denuncia di torti veri o presunti, non fa eccezione ed è in linea con altre realtà similari.

In tutto il nostro Paese, pubblici ministeri, giudici, avvocati e polizia giudiziaria, fanno i conti quotidianamente con denunce, segnalazioni, arresti e processi per atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, tanto che in quasi tutti gli uffici di Procura è previsto un gruppo di magistrati che si occupa prevalentemente di processi per i reati di violenza di genere che, in sostanza, pareggiano per numero quelli per tutti gli altri reati.

Una sorta di “pandemia” delittuosa che sembra avere colpito tutti gli uffici giudiziari o forse semplicemente la tardiva presa d’atto di un fenomeno da sempre esistente e tragicamente sottovalutato.

Quali sono le cause e i possibili rimedi?

In genere si tende a non interrogarsi né sulle cause generatrici dei contenziosi, né sulla qualità della risposta che gli uffici giudiziari danno alla c.d. “domanda di giustizia”. Sono interrogativi difficili. Occorrerebbero volumi. Qui sono possibili solo alcune considerazioni, poco più di uno spunto di riflessione sulla condizione delle famiglie sempre meno supportate da altre entità in grado di contenerne i disagi attraverso forme di mediazione sociale.

Innanzitutto, le statistiche demografiche ci dicono che la famiglia tradizionale presenta sempre più esigue dimensioni e si alimenta attraverso il fenomeno della “famiglia allargata”, spesso  a formazione multietnica, che, se da un lato è fervente e vivace, dall’altro può essere foriera di conflitti e disagi. Oltretutto la vita nelle città, non solo nelle metropoli, è andata organizzandosi ben più attorno alle esigenze dell’individuo che non a quelle delle famiglie. E’ più facile e meno dispendioso, apporta più vantaggi nel breve-medio periodo, tuttavia, senza correttivi, è un progetto destinato a non durare, ad arenarsi, mancando di uno sguardo più lungo, più volto al futuro che sarà.

Inoltre, le rapide trasformazioni economiche e culturali hanno profondamente inciso sul rapporto tra famiglia e figli. Le regole sociali a cui la famiglia era chiamata educare i futuri adulti si sono via via appannate e spesso dissolte sotto la spinta dei mutamenti sociali che impongono ritmi di vita frenetici e stressanti, così la famiglia ha gradualmente perso il suo ruolo di tramite tra figli e società. Sono diventati sempre meno chiari i modelli di adulto e quindi anche  di società futura, in un contesto ove il bene e il male sono sempre meno riconoscibili e sempre meno capaci di risonanze emotive in chi li compie.

Infine, il fenomeno delle dipendenze – da alcol, droghe e gioco –  è entrato prepotentemente nelle famiglie attingendo spesso le figure adulte prima ancora degli adolescenti. Le dipendenze suppliscono a una solitudine esistenziale, figlia del nostro tempo e madre di tutte le povertà. Alimentano forme di violenza soprattutto laddove esistono le subalternità che si poggiano su un rapporto di forza. Spesso la violenza cade dall’alto, ma talora può venire anche dal basso: dalla ribellione che vuole sovvertire o almeno sollevarsi, per quanto sforzo costi. La violenza allora può nascere anche da lì per appianare quella disparità, per cercare di ribaltarla.

Le donne e i bambini sono le vittime più vulnerabili, causa una minorità fisica primordiale e inestinguibile. Una disparità, sempre sottesa e latente, diventa allora una minorità dialettica e il silenzio, o comunque l’assenza di dialogo, diventa il mezzo per non indisporre il proprio interlocutore ed evitarne le reazioni. Minorità che si somma a quella sociale, economica ed esistenziale, le quali dettano scelte che nemmeno verrebbe in mente fare e autoimpongono vincoli che, solo apparentemente, sembrano venire da fuori.

Questa nuova consapevolezza richiede una nuova risposta giudiziaria, articolata in tre livelli: repressione delle condotte di reato (attraverso una maggiore attenzione e consapevolezza nell’affrontare denunce e procedimenti), modifiche legislative per adeguare l’impianto codicistico alla mutata realtà e un lavoro di formazione di tutti gli operatori del settore.

Il diritto cerca di filtrare dalla realtà alcuni conflitti, individuati dal legislatore, e quei conflitti cerca di curare, lenire o almeno attutire. Setaccia tra i deboli i meritevoli di maggior tutela e tenta di difenderli. Donne, bambini, lavoratori, alcune minoranze. Non tutti i deboli, non proprio tutti ancora, ma il diritto non ne è più artefice o complice delle diseguaglianze, casomai spettatore attivo, controllore e censore.