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«Manca un piano di prevenzione»
Ha preso parola in questi giorni con un ampio comunicato il presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Riccardo De Facci, per dire la sua sul dibattito innescato dal docufilm di Netflix su San Patrignano. Parole dure, su quel che accadde allora, «quando una società spaventata e incapace di affrontare la diffusione dell’eroina sembrava aver dato alle nascenti comunità un mandato amplissimo per sconfiggere il “mostro” della droga». Scritte con la consapevolezza che poco è cambiato, però, se i termini del dibattito però sono ancora gli stessi: «Buoni e cattivi, giusto e sbagliato, punizione e salvezza. Queste semplificazioni ci impediscono di affrontare il problema».
Cosa non funziona nel discorso sulla droga, se siamo fermi ancora al “metodo Muccioli”?
Che è un discorso appunto, fatto di categorie prestabilite. La droga invece va guardata attraverso le storie dei ragazzi, che sono tutte diverse e delicatissime. Dietro al consumo di droga ci sono storie, persone. Quello che ci ha insegnato la prossimità coi tossicodipendenti nel corso degli anni è la necessità di stare a tutti i costi assieme alla loro domanda, di comprendere perché a quella domanda, a quel bisogno, hanno risposto in maniera sbagliata con le sostanze. Prima di punirli, isolarli, rinchiuderli, e prima di tentare di salvarli ad ogni costo, con ogni mezzo, serve mettersi dalla loro parte, indossare il loro sguardo spiazzato, ferito, malato.
Significa che non ci sono nemmeno soluzioni prestabilite, però. Come si possono strappare alla dipendenza allora in un percorso terapeutico?
Serve capire, innanzitutto, che il percorso terapeutico non basta. Il lavoro coi ragazzi deve cominciare prima e altrove: va ricostruito un tessuto sociale che oggi drammaticamente manca, servono luoghi (si pensi al dramma di un anno senza scuola), servono incontri. Il tema qui è che stiamo lasciando da sole le persone più fragili nel periodo più delicato che è la crescita. Li abbiamo caricati a molla col mito dell’individualità sfrenata, li lasciamo completamente soli quando incontrano delle difficoltà.
Manca lo Stato, insomma.
Negli ultimi 12 anni, indipendentemente dal colore politico, nessun governo ha sentito la necessità di riunire una conferenza nazionale sulle droghe. Non abbiamo un Piano nazionale sulla prevenzione, e questo non ci stupisce visto che non vengono nemmeno aggiornate le tabelle in base alle nuove sostanze che vengono messe in commercio al ritmo di 150 ogni anno e che circolano senza alcun controllo sul web. Cambiano i nostri ragazzi e le loro domande, cambiano le sostanze, ma non cambiano le risposte. Lo Stato non pensa al futuro: lo vediamo accadere col Covid e i fondi che abbiamo ottenuto per la ricostruzione del nostro Paese, lo abbiamo visto accadere troppo a lungo con la droga.
Che fare?
Ricominciare a sognare il futuro dei nostri ragazzi, che in maniera così evidente ci stanno chiedendo aiuto. Tutti, non solo i tossici. Sognare significa capire cosa sta succedendo, decidere dove intervenire, quanto e come finanziare gli interventi, che peso dare alla scuola come luogo educativo, che rapporto intrecciare con le famiglie. Le comunità hanno un ruolo in tutto questo? Certo, ma da sole possono fare quello che fanno con grande difficoltà: accogliere migliaia di ragazzi feriti ogni anno e provare a rimetterli in piedi senza ricette e senza verità in tasca.