Con il Papa per la Chiesa

Quasi cinquant’anni fa, otto giorni prima della famosa omelia del 29 giugno 1972 sul «fumo di Satana» che è filtrato – contro la logica e le aspettative – nella Chiesa del Concilio, il grande papa Paolo VI aveva annotato un pensiero semplice e struggente, dal titolo drammatico. Il pensiero, scandito con ritmo quasi poetico e rimasto fino a ieri inedito, ci è stato restituito dall’affettuosa memoria del padre Leonardo Sapienza, reggente della Casa Pontificia (La barca di Paolo, 2018).

«Forse il Signore / mi ha chiamato a questo servizio, / non già perché io vi abbia / qualche attitudine, / o perché io governi e salvi la Chiesa / dalle sue difficoltà, / ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, / e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva» (Il terrore e l’estasi, 21 giugno 1972).Soffrire qualcosa per la Chiesa e rendere chiaro che il Signore, non altri, la guida. Ormai è pronto per questa estrema testimonianza, Paolo VI, affinché il suo ministero di confermare la fede giunga alla sua più spoglia evidenza e al suo più radicale compimento. Sulla stessa scia dell’esperienza dell’Orto degli Ulivi, che non fu risparmiata a Gesù: il quale l’ha donata ai suoi, come grazia, a cominciare da Pietro (Lc 22, 31-32). Tutto lascia pensare che l’ora di questo passaggio cruciale sia venuta anche per papa Francesco, mentre gesti inusuali di umiltà e trasparenza vengono richiesti e compiuti e mentre infuriano polemiche attese e inattese. La purificazione richiesta dalla fede non è mai indolore. Quando l’ora è venuta, però, le manovre dei tessitori di strategie e le macchine dei pretendenti alla leadership, stanno a zero. Nella sofferenza, questa evidenza diventa trasparente e – paradossalmente – rende certa la speranza che le stanze saranno liberate dal fumo. La Chiesa non è una partita tra i notabili dell’apparato, che pensano di poterne disporre: “governando e salvando”. La Chiesa è dei piccoli per i quali il Signore è pronto a esporsi e a svenarsi, perché ascoltano la sua voce e vivono di quella, con cuore puro anche se vulnerabile. Quando la sentono, chiunque parli, si emozionano, si commuovono, rivivono. Se non la sentono, non si lasciano ingannare: per quanto levigati siano i discorsi e puntigliose le giustificazioni. Il magistero di Francesco è stato diretto e non reticente, fin dall’inizio, su questo punto cruciale. Questi piccoli fratelli e sorelle di Gesù sono milioni, anzi miliardi. Una piccola parte la conosciamo, la gran parte ci è sconosciuta, come dice il libro dell’Apocalisse.

La “parte nobile” della Chiesa, sono loro. Fino a che ci sono questi, la Chiesa vive: sempre di nuovo i peccati possono essere espiati e le ferite guarite. Senza di loro, non ci sarebbe futuro per le nuove generazioni: e lo Spirito non saprebbe a chi affidare i suoi doni, che resistono alla furia degli elementi e fanno uscire dall’angoscia. Ogni prova della fede, per quanto dura e difficile, può essere superata. La preghiera deve nutrirla di serio discernimento, naturalmente (e ci serviranno parole profonde e passioni evangeliche, più che dichiarazioni di circostanza e silenzi imbarazzati). Ultimamente, però, questa sapienza può venire solo dall’alto. Deve avere intensità giusta e accenti di verità: la preghiera non è una scappatoia dell’impotenza o la difesa dello struzzo. Però non esiste altro passaggio, per liberare le ostruzioni mondane e riaprire le affezioni dello Spirito, che ci riunisce intorno al Signore, non all’apparato (Siamo pronti a soffrire qualcosa per la Chiesa, a questo scopo?).

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