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di Fernanda Monte
L’esodo di don Giacomo Alberione alla casa del Padre avvenne alle soglie dei tragici anni 70, gli anni di “Evangelizzazione e sacramenti” di “Evangelizzazione e promozione umana”; gli anni in cui la Chiesa, nel suo decollo verso il 2000, avverte quanto fragile e precaria è la condizione umana, e come per fondare e radicare la speranza sia necessaria la sovrabbondante ricchezza della divina misericordia.
Fu quella l’ultima tappa di un laborioso e incessante cammino nel Cristo via, verità e vita. Lasciò questo mondo sapendo che tutto confluiva in un solo mare… «Considerando la piccola Famiglia Paolina – scriveva nella sua autobiografia – si potrebbe paragonarla a un corso d’acqua, che mentre procede si ingrossa, per la pioggia, per lo sgelo dei ghiacciai, per varie e piccole sorgenti. Le acque così raccolte e incanalate per la irrigazione di fertili pianure e produzione di energia, calore e luce, attendono che di nuovo i canali si riuniscano nel mare di una felicità eterna in Dio».
Definizione profonda delle realtà carismatiche nate da «questo inesausto sognatore ai piedi del tabernacolo», come lo definì mons. Luciano Gherardi, liturgista e poeta bolognese. Di lì, dal tabernacolo, è scaturita la sua opera di patriarca e di uomo dell’era tecnologica. Come patriarca, restò il contadino del suo estremo lembo di Piemonte, come uomo dell’era tecnologica avanzata, fu per nulla provinciale, diplomatico e audace, proteso verso un sempre nuovo domani. Questo piccolo, esile cuneese fu perennemente incalzato come Abramo, dalla volontà del Dio degli eserciti, che non aveva provocato ma “piuttosto assecondato e quasi subìto”.
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