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Emergenza medici
L’emergenza medici non è un problema stagionale: negli ospedali mancano i camici bianchi perché sono state fatte scelte sbagliate. Parola di medico. In quest’intervista, il presidente della federazione degli ordini dei medici Filippo Anelli ci spiega quali siano le scelte sbagliate e come porvi rimedio. E si dice disposto a ragionare anche sulla chiusura degli ospedali inefficienti.
Di questi tempi, ogni anno fa caldo e i medici vanno in ferie: è davvero l’estate l’emergenza della sanità italiana?
È un’emergenza nell’emergenza. Nel senso che c’è un’emergenza non dichiarata, che ci accompagna con i suoi disservizi tutto l’anno e che è generata da carichi di lavoro eccessivi nel Servizio sanitario nazionale. I mesi estivi accentuano il problema di un organico che perde pezzi a colpi di ottomila medici all’anno. Se il sistema sanitario non è già collassato lo si deve solo alla dedizione di chi non se la sente di abbandonare i malati.
Sta dicendo che la classe medica non ha alcuna responsabilità nelle liste d’attesa e nei disservizi denunciati ogni giorno?
Parlano i numeri: oggi i medici italiani svolgono un milione e mezzo di ore di straordinario non retribuito, pari a mezzo miliardo di euro, in termini di salario non corrisposto. Questo significa che, mentre il Sistema sanitario nazionale collassa, noi restiamo in corsia a lavorare oltre il nostro orario, perché questa professione è fatta anche di passione, dedizione e senso civico. La Sanità italiana sta in piedi anche grazie al “volontariato” dei professionisti che danno più di quel che ricevono. Questo avviene non perché una legge o un regolamento lo imponga, ma per ragioni etiche.
A chi fa comodo che i medici tamponino l’emergenza?
Sicuramente la politica in questi anni ci ha marciato. E dirò subito che la responsabilità di aver lasciato acuire i problemi non è di questo governo ma di tutti coloro che hanno governato negli ultimi dieci anni.
In che modo la politica ci ha marciato?
Prendendo decisioni sbagliate.
Quali?
Ha affidato tutto il potere ai burocrati e ha inseguito il pareggio di bilancio come se fosse un totem, rifiutandosi di investire quand’era possibile e necessario.
Molti cittadini ritengono invece che i medici siano una casta come i politici. Lei si sente casta?
Forse il nostro errore maggiore è quello di esserci considerati parte dell’apparato pubblico. Errore strategico, perché ci ha assimilati alla casta nell’immaginario collettivo. Al contrario, soprattutto oggi, siamo sempre più medici del cittadino e non dello Stato, perché il diritto è in capo al cittadino.
Prende le distanze dallo Stato?
Non è mancanza di senso civico ma obiettività: la politica del pareggio di bilancio non è stata una scelta nostra eppure l’abbiamo pagata noi, in termini di qualità del nostro lavoro e di salari, come i cittadini.
Di chi è dunque la responsabilità dello sfascio?
Se intende dei tagli che hanno portato a questa situazione, anche questo dato è oggettivo: i manager sanitari sono stati bravi a raggiungere il pareggio di bilancio, ma l’hanno fatto sulla pelle degli altri.
E adesso come se ne esce?
Abbiamo avanzato alcune proposte. Una di queste punta sui giovani. Abbiamo 10mila neolaureati in Medicina e Chirurgia che lo Stato non riesce a formare e che quindi non possono lavorare. Abbiamo bisogno di chirurghi e non possiamo assumerli ma neanche farli entrare in una sala operatoria perché devono ancora completare l’iter formativo. Si deve concludere il percorso che il governo ha iniziato con la legge di Stabilità e il decreto Calabria, cioè dando la possibilità agli specializzandi di partecipare ai concorsi, un anno prima rispetto al passato, e a quelli dell’ultimo anno di lavorare sotto contratto negli ospedali.
Un’altra misura tampone?
È una misura tampone, ma l’errata programmazione del passato ci mette in condizione di avere 10mila medici in meno e di non poter aspettare 5 anni per avere gli specialisti che servono. Per questo si deve fare un patto con la professione. I cinquemila giovani che saranno assunti libereranno altrettante borse di studio: tamponeremo l’emergenza e il bisogno formativo a invarianza di spesa.
Non si rischia di vanificare i risparmi di anni con la scusa dell’emergenza?
Noi non vogliamo sforare il bilancio, ma chiediamo al governo di fare delle scelte e fare della sanità una priorità: non si può continuare a destinare alla sanità pubblica solo il 6,4% del Pil contro l’8 dei tedeschi e a permettere che sia erosa dai fondi integrativi che duplicano le prestazioni e falcidiata dai tagli. Il sospetto che esista un piano per smantellarla è forte.
State chiedendo più soldi in busta paga?
Esiste un problema di rinnovo dei contratti di lavoro che rappresenta anche un modo per garantire la qualità del personale: se il salario è basso i medici fuggono all’estero. I contratti sono bloccati da dieci anni: ciò dimostra il disinteresse della politica per il sistema sanitario e il mancato impegno nei confronti degli operatori sanitari.
Perché la riforma della cronicità non ha funzionato?
Perché è un modello giusto, ma è rimasto sulla carta. La sanità per l’acuzie funziona, ma non si è avuto il coraggio di investire sulla cura dei cronici a livello territoriale – un target di 22 milioni di cittadini –, investendo in medici, ma anche in infermieri, tecnologie, ecc. Ci ha provato la Lombardia, senza andare fino in fondo, perché ha dovuto chiedere aiuto al privato per trovare le risorse. Se si vuole ridurre la domanda che ingolfa i pronto soccorso e gli ospedali comunque non c’è altra strada.
Appunto, gli ospedali: i medici sono favorevoli a chiudere quelli che non servono?
La Fnomceo è disponibile a promuovere insieme alla politica dei modelli virtuosi e anche a chiudere gli ospedali che non riescono più a garantire sicurezza, efficienza ed efficacia. A patto che, a fronte della chiusura delle strutture per acuti, ci sia un investimento sul territorio. Oggi siamo fermi a un modello di 60 anni fa. Malgrado tante teorie e sperimentazioni.