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A proposito di cambiamenti
È risaputo che l’industria della bellezza è tra le più fiorenti e redditizie, ma non altrettanto forse il preoccupante exploit di pratiche di “chirurgia plastica etnica”, finalizzate a “occidentalizzare” aspetto e tratti somatici: 15 milioni di dollari annui è l’ammontare stimato della spesa, nella sola Cina, in operazioni estetiche. Alla rete del profitto estetico non è fuggito neppure il mondo musulmano: persino nei casi di donne costrette al velo, la frequenza di interventi è molto alta, come in Iran, o a Kabul, nonostante il burqa. Da una schiavitù all’altra, senza soluzione di continuità. Dall’interrogativo di shakespeariana memoria, “essere o non essere”, al contemporaneo “apparire o non apparire”, la civiltà si è concentrata «su un qui ed ora puramente corporei, uccidendo tutti gli dei e assumendo a unica religione la bellezza» ( Vittorino Andreoli). Più che da esigenze estetiche, la pratica di intervenire sui tratti etnicamente distintivi, caratterizzanti la propria origine, allo scopo di attenuarli o minimizzarli, la cui unica fonte di ispirazione è il modello occidentale, è dettata dal tentativo di “naturalizzarsi” in una realtà geografica e socioculturale diversa, dalla richiesta di accettazione all’interno di un contesto cui ci si sente e si è estranei, dalla convinzione secondo cui un incarnato etereo e un nasino all’insù garantiscano l’accesso ad ambienti e ceti più elevati.
Il ricorso a una soluzione tanto radicale e invasiva, per le implicazioni psicologiche che trascina con sé, come “ascensore sociale” riflette un bisogno di riscatto da uno stigma soffocante, che, però, così si asseconda ed alimenta. Da una ricerca di integrazione si finisce per perdere anche l’appartenenza alla comunità d’origine e a non riconoscersi più nelle proprie radici. È l’ennesima riproposizione, camuffata e celata dietro il culto dell’omologazione, dell’antico schema coloniale. Ma non è tutto, perché a essere più incisivamente destabilizzante è il rapporto della persona con il proprio corpo, che, per definizione, si regge sui verbi essere ed avere. Il corpo è “mio” nel senso del corpo “che ho”, “mio” a tal punto da farne un materiale grezzo da plasmare, anche in maniera barbara e primitiva, pur di affermare davanti a me e al mondo chi sono. “Io sono il mio corpo”, accorciando la distanza tra fisicità e persona, potrebbe, però, precludere la dimensione trascendente dell’uomo. Definizioni complementari, ma entrambe, singolarmente, insufficienti a definire l’essenza dell’individuo ( Corpore et anima unus), dove, corpo e spirito trovano unitaria sintesi.
E tutto quanto tocca il corpo, tocca anche lo spirito. E proprio questo è il nucleo all’interno del quale esplode la devastazione del proprio io, più intimo e personale. «Essendo il corpo manifestazione, epifania della persona, è la frontiera (o trincea) su cui ciascuno si posiziona, relazionandosi al mondo» spiega suor Roberta Vinerba, docente di Teologia morale e direttrice dell’Istituto superiore di Scienze religiose di Assisi. «Infatti, da sempre gli uomini e, soprattutto, le donne, hanno elaborato il proprio corpo facendone una forma di comunicazione»: è linguaggio affidato alla libertà personale che lo interpreta e lo modella. Ma l’individuo assorbe anche l’humus in cui si forma e si muove, gli stereotipi che lo circondano e lo accompagnano, i tratti espressivi della storia e geografia dei luoghi che abita e vive. «Infatti, anche l’appartenenza culturale è sempre stata vissuta sul corpo: si pensi a tatuaggi, incisioni, particolari trattamenti della pelle, che sono, non solo presso alcuvari ne tribù, vere dichiarazioni di appartenenza. Perché di questo si tratta: appartenere» spiega la teologa. Del resto, ognuno di noi sente il bisogno di essere qualcuno: «Ecco: la chirurgia plastica etnica dice lo spaesamentoe sradicamento di chi ha rotto gli ormeggi con la propria appartenenza e vaga, disorientato, alla ricerca di una nuova – sintetizza suor Vinerba – il problema è che l’appartenere è dono, non ricerca, è l’espressione di un sentire che ci precede, che riconosciamo, in quanto prima ne siamo riconosciuti». La chirurgia etnica è, quindi, anche l’apoteosi, la forma più trionfante, della vittoria di appiattimento ed omologazione degli stili di vita denunciate da Benedetto XVI ( Caritas in veritate): «In questo modo viene perduto il significato profondo della cultura, delle tradizioni dei popoli, entro le quali la persona si misura con le domande fondamentali dell’esistenza».
È un disperato tentativo di fuggire ai quesiti fondamentali, alienandosi dietro un’apparenza che sembra saziare l’inquietudine del momento. «E, ancora, la chirurgia etnica è l’espressione trionfante di quel processo di radicalizzazione della libertà, contrassegno dell’occidente opulento e libertario, in cui il divorzio tra natura e cultura si consuma sul corpo e nello stravolgimento di quei tratti, che più evidenziano l’origine etnica, si celebra la dicotomia tra essere e apparire» conclude la studiosa. In questo contesto, l’intervento sul proprio corpo è il segno di una drammatica solitudine, unico sbocco di una libertà senza radici. Una solitudine vissuta, prima di tutto, nel proprio intimo, in cui l’ossessiva richiesta (chi sono io?) corrode il pensiero. Perché l’io non è un soggetto isolato (individuo), è una persona, in carne e ossa, carica dei significati della comunità che la “segna”. L’io personale è, sempre, io collettivo. La prassi della chirurgia etnica, che si offre come liberazione da sé per essere chi si vuole, sotto le mentite spoglie di una autonomia sconfinata e di un arbitrio egocentrico, porta le cicatrici della mercificazione della persona, patisce il dolore del crollo dell’illusione di potersi autoaffermare, a prescindere da tutto e tutti. Da qui, la necessità di quelle trasformazioni necessarie a “confezionarsi” adeguatamente per presentarsi sul mercato, pena l’esclusione. Pena l’insignificanza.